“Tutto mi sembra cambiato in questi due giorni. Mi sento solo e non capisco perché.” […]
“Tutto è cambiato per te. In realtà è tutto come prima. Hai sentito la solitudine perché non sei più un bambino. Ma il mondo è sempre stato pieno di questa solitudine”.
In queste poche battute di un dialogo fra un ragazzino e sua madre si concentra l’essenza, il perno attorno cui ruota il romanzo levigato e scintillante come un piccolo gioiello intitolato La commedia umana, di William Saroyan. Il suo autore, nato in California esattamente 110 anni fa (ad agosto), appartiene a una famiglia armena della Turchia orientale fuggita dalle persecuzioni di inizio Novecento che sfoceranno nel genocidio del 1915-1916.
La vicenda si snoda lungo le esperienze che Homer Macauley, ragazzino di circa quattordici anni, inanella eseguendo il suo nuovo lavoro come portalettere per l’ufficio del telegrafo di Ithaca, California. La mamma è rimasta sola dopo la morte del marito, il fratello grande Marcus è partito per il fronte (siamo nel 1942), a casa sono rimasti la sorella Bess e il fratellino Ulysses, animato dalla più pura e cristallina curiosità dei bambini. È necessario trovare un lavoro, e Homer si fa assumere per l’appunto come incaricato della consegna dei telegrammi. Questa sarà per lui l’occasione di cominciare ad entrare, di soppiatto, quasi senza accorgersene, nel mondo degli adulti, o meglio, nel mondo reale: ascoltare le domande e le riflessioni dei propri colleghi più anziani, consegnare telegrammi a madri che ricevono la notizia della morte dei loro figli, scoprire la profonda umanità della propria professoressa di storia… tutto questo conduce Homer a rendersi conto della complessità della realtà, e della vastità che alberga nel cuore dell’essere umano e che spesso fa sprofondare nella solitudine più profonda, la solitudine di chi percepisce che la realtà non gli appartiene e gli sfugge da ogni parte.
Il romanzo sembra non seguire un itinerario preciso: i capitoli, pur presentando a rotazione gli stessi personaggi, danno a volte l’impressione di istantanee fotografiche, di momenti di verità che si imprimono nelle menti e nei cuori dei protagonisti. Si ha quasi la percezione che Saroyan si aggiri con un taccuino seguendo le vite dei suoi personaggi, affrettandosi a riportare frammenti di realtà o attimi di consapevolezza che di colpo, senza preavviso, nei momenti più banali o inaspettati, si fanno icasticamente portatori di luce e di significato. Il tutto circondato da un alone di intima nostalgia, forse e solo in parte riconducibile alle sue radici di esiliato armeno.
Un esempio lampante di queste istantanee, per quanto fugace, è la descrizione del rientro a casa del piccolo Ulysses dopo aver bighellonato sospinto dalla propria genuina curiosità, descrizione con cui si conclude il primo capitolo: “Sua madre era in cortile, gettava becchime ai polli. […] [Ulysses] si fermò un istante, poi prese un uovo e lo porse a sua madre con cura estrema. Voleva esprimerle qualcosa che un adulto non saprebbe immaginare e un bambino non saprebbe descrivere”.
Un lirismo, insomma, che non ha nulla di estetizzante e che sembra sfondare la superficie della quotidianità per raggiungere la sua essenza più vera: come accade al signor Ara, commerciante armeno del quartiere dei Macauley, osservando contemporaneamente suo figlio chiedergli un oggetto sempre diverso, e un cliente insistere per dei biscotti alle uvette che in città non si possono trovare: “‘In Russia, così vicino alla nostra nazione, […] milioni di bambini patiscono la fame. Hanno freddo, girano scalzi, girano a casaccio, non hanno un posto dove dormire, pregano per un tozzo di pane secco… un posto dove sdraiarsi a riposare, dove trascorrere una notte dormendo in pace. E noi, che facciamo? […] Qui siamo a Ithaca, California, in un grande paese, l’America. Che facciamo, eh? Indossiamo bei vestiti. Ogni mattina ci svegliamo e calziamo ottime scarpe. Giriamo per le strade senza il minimo rischio che arrivi qualcuno con un’arma o che entri in casa nostra e uccida i nostri bambini. […] Facciamo bei giri in automobile. Mangiamo cibo di prima scelta. Ogni notte, quando andiamo a letto, dormiamo e… con tutto questo, come stiamo? Siamo scontenti. Siamo comunque scontenti.’ ‘Una mela — disse — un’arancia, un dolcetto, una banana, per amor del cielo, piccolo mio, non farmi questo! Sei mio figlio, sei di certo migliore di me, quindi non fare queste cose! Sii contento! Sii contento! Io sono infelice, ma tu devi essere contento!'”.
Abbiamo detto di tanti quadri (o istantanee) apparentemente slegati l’uno dall’altro; ma in realtà, a ben vedere, i fili sembrano ultimamente riannodarsi, anche se a pagine di distanza. Così, al grido disperato del droghiere, rispondono le parole che l’anziano commesso del telegrafo rivolge a Homer, stupito della sua maturità, poco prima di morire all’improvviso: “È questo che ti voglio dire: sii contento di te, sii riconoscente. Cerca di comprendere l’importanza di essere contenti di come si è. Sii contento, perché godrai della fiducia di persone del tutto sconosciute. […] La gente se ne rende conto: non li tradirai, non farai nulla contro di loro, non li disprezzerai. Vedrai in loro tutto quello che gli altri non sono stati capaci di vedere. Devi esserne consapevole, senza imbarazzo. Sei un uomo di quattordici anni. Non so chi ha fatto di te una persona così, ma sappi che devi esserne contento. Mi capisci?”
Di fronte a tanti interrogativi che si spalancano dentro la vita quotidiana, di fronte alla solitudine che sembra invadere il cuore di chi si scontra con la realtà nella sua durezza, Saroyan offre timidamente un piccolo approdo di significato: la possibilità che si crei un luogo da poter chiamare “casa”, in cui essere accolti. Homer, Ulysses, Ithaca… forse i nomi scelti da Saroyan non sono casuali, forse siamo implicitamente e coscientemente mossi a immedesimarci di nuovo con il viaggio omerico verso casa. Ma questa casa va scoperta, a volte ricostruita, oppure trovata: come per il soldato amico di Marcus (il fratello grande di Homer), che nei Macauley trova inaspettatamente la famiglia che non ha mai avuto, e che nel momento più drammatico, si sente rivolgere queste parole dalla madre di Homer, le parole con cui si conclude il romanzo: “Entra, ti prego, non vuoi che ti facciamo vedere la casa?”.