Sono passati 70 anni dal 14 luglio 1948 quando in Via della Missione, a Roma, ebbe luogo l’attentato al segretario generale del Pci, Palmiro Togliatti. La storia dell’Italia repubblicana rischiò di finire ancora prima di cominciare, in una spaventosa guerra civile. Sarebbe stata l’epilogo, ancora più devastante, di quella appena finita, cioè del biennio 1943-’45. Sull’argomento sono usciti due lavori. Uno, del nostro collaboratore Salvatore Sechi, si intitola L’apparato para-militare del Pci e lo spionaggio del Kgb sulle nostre imprese, edito a Firenze da Goware; e l’altro è opera del suo giovane collega dell’Università del Molise, Giuseppe Pardini, Prove tecniche di rivoluzione, Luni, Milano. In questa lunga intervista, che sarà pubblicata in due puntate, parleremo con Sechi della “diversità” del Pci. Nel 48 il Pci era pronto a fare carta straccia della Costituzione. Vediamo perché.



Professor Sechi, che cosa hanno in comune i vostri saggi?

In primo luogo dimostrare che la “diversità” del Pci, di cui la storiografia comunista e i giornaloni si sono fatte garanti, è fin dall’inizio una forzatura, diciamo pure, ricorrendo ad un vecchio termine, una grande mistificazione.

Vuole negare che i comunisti italiani non siano stati diversi dai comunisti francesi, tedeschi, spagnoli ecc.? Collaborarono alla stesura della Costituzione e l’hanno sempre rispettata.



Credo che l’amico e collega Giuseppe Pardini concordi con me nell’essere almeno scettico su questo paradigma interpretativo. La nostra Costituzione non prevede che un partito possa ricevere un finanziamento persistente, più che quarentennale, da parte di uno Stato (anzi da uno Stato-partito) con cui non si era neanche alleati. In secondo luogo, la Costituzione non prevede che i risultati elettorali (mi riferisco a quelli del 18 aprile 1948 che sancirono la grande vittoria della Democrazia cristiana) possano essere rovesciati con azioni di forza, addirittura armate, come avvenne il 14 luglio 1948. L’esplosione delle manifestazioni popolari spesso risultò non spontanea ma programmata, cioè organizzata, ed ebbe un contenuto eversivo e para-golpista. E’ quanto avvenne a seguito dell’attentato a Togliatti. Fu un atto che, si badi bene, venne deplorato da tutto il governo De Gasperi, a cominciare dal ministro dell’Interno Mario Scelba.



Andiamo con ordine. La grande stampa ha sempre stigmatizzato il finanziamento alla Dc e ai partiti “centristi” di governo (liberali, repubblicani e socialdemocratici) da parte degli Stati Uniti effettuato tramite la Cia o altri organi. Il flusso di fondi che dal vertice dello Stato sovietico arrivava, tramite il Kgb, ai comunisti, in parte al Psi e ai partiti di estrema sinistra, è stato sempre riferito come una voce, un’informazione proveniente dagli anti-comunisti, quindi con riserva e sospetto. Quando cambiarono le cose?

Non bisogna mai dimenticare che in Italia l’anti-comunismo è stato sempre considerato non un dovere che spetta a qualunque partito, movimento o cittadino democratico, ma una sorta di grave malattia mentale, un peccato, qualcosa che ad un democratico, anzi ad ogni uomo onesto non era consentito. Gli anti-comunisti sono stati percepiti e rappresentati dalla stampa come gente “eccessiva”, imprudenti se non addirittura temerari, dei veri e propri attaccabrighe, al soldo della Cia e dell’imperialismo americano. Pensi alla scarsa considerazione che si è avuta per il settimanale Il Mondo, per riviste come Tempo presente e via dicendo. Già nell’agosto-settembre del 1954, la rivista mensile diretta da Togliatti, Rinascita, dedicò all’argomento un numero speciale (n. 89) intitolato “Inchiesta sull’anti-comunismo”. A definirlo un pamphlet indecente e spudorato non si va lontano dal vero.

Eppure lei ricorda che a descrivere l’arco temporale e l’entità di tali finanziamenti fu un alto dirigente dello stesso Pci, Gianni Cervetti, in un volume pubblicato nel 1993.

Onore a Cervetti, anche se la documentazione precisa, impeccabile, è stata fornita al giudice italiano Giovanni Falcone dal procuratore generale di Mosca Valentin Stepankov (rimando al volume da lui curato con Francesco Bigazzi). Considero un contributo insuperabile alla cultura dell’anti-comunismo L’oro di Mosca scritto nel 1999 da Valerio Riva, con la collaborazione di Bigazzi e Paolo Guzzanti.

Ci può dare qualche cifra?

Dal 1950 al 1991 Mosca versò ai partiti comunisti (compreso il Psiup e altri “compagni di strada”) 3.900 miliardi di dollari. Il Pci ne è stato il maggiore beneficiario: dal 1971 al 1990 il Pci a guida di Enrico Berlinguer ha ricevuto dal Cremlino 47 milioni di dollari.

Ma un dirigente come Emanuele Macaluso, siamo nell’anno 1991, ha deplorato, su l’Unità, che si potesse ancora parlare dell’oro di Mosca.

A Macaluso il potere è piaciuto sempre molto più della ricerca della verità storica.

Nel suo ultimo lavoro lei richiama la quantità di questa biada e la sua distribuzione negli anni. Ma erano risorse che l’Urss inviava per sostenere elettoralmente e organizzativamente il Pci o per consentire a questo partito di alzare il tiro sulla democrazia liberale appena instaurata, indebolirla e alla fine paralizzarla?

I comunisti russi hanno dall’ottobre 1917 in poi innescato un processo rivoluzionario di dimensioni planetarie. A questo fine, tra il 1951 e il 1991 furono destinati i circa 4mila miliardi di dollari stanziati per sostenere i partiti comunisti e le forze di sinistra del mondo occidentale. Il Pci ne ricevette un quarto. Veniva consegnato mensilmente nella residenza dell’ambasciatore sovietico a Roma Anatolj Rizhov e al senatore comunista livornese Anelito Barontini. Dalle sue mani arrivava a quelle di Armando Cossutta e alla segretaria del Pci.

Quale significato attribuisce a questo imponente traffico di dollari?

Quello più normale, cioè che il Pci è stato al servizio (ideologico, politico, economico) di una potenza straniera come l’Urss, servizio per il quale riceveva un elevato compenso mensile. Di qui anche una conseguenza: il Pci ha avallato e collaborato all’azione di spionaggio compiuta dal Kgb per impadronirsi delle innovazioni e delle tecniche italiane e in generale occidentali in campi come l’industria militare, elettronica, computeristica, spaziale eccetera. Nel mio libro ho ricordato le analisi e le testimonianze sia di Valerio Riva sia di un tenace anti-comunista come l’analista torinese Luigi Cavallo.

Essere destinatari di grandi fiumi di dollari da parte del controspionaggio sovietico non è un merito e nemmeno un’attività prevista o addirittura accreditata dalla nostra carta costituzionale.

E’ estraneo ad essa. Pertanto l’estrema permeabilità dei dirigenti comunisti, di tutti i comunisti italiani (Togliatti, Longo, Di Vittorio, Ingrao, Napolitano, Occhetto, Natta, Berlinguer ecc.), ha configurato un comportamento di connivenza, se non di tradimento, con uno Stato-partito con cui non si avevano rapporti di alleanza. Si spiega così che la maggioranza degli elettori italiani si sia rifiutata di dare al Pci il governo del paese. E’ stato un partito inaffidabile.

E oggi?

Il vizio è rimasto. Inaffidabile è stato considerato anche il Partito democratico di Matteo Renzi. Non aveva liste di proscrizione, ma eccelleva in quelle di profittatori candidati alla divisione delle spoglie. Mi riferisco agli incarichi di regime (dallo sport alla Rai, dalle imprese pubbliche alla “partecipate”).

Ma Lei e Giuseppe Pardini siete arrivati ad un’altra conclusione che riguarda l’esistenza di un apparato para-militare del Pci.

(1 – continua)

Max Ferrario