Crollano molti miti intorno al brigantaggio. Il primo è quello che associa tale fenomeno esclusivamente al Sud, alle terre di Calabria, Basilicata, Campania, Puglia, Abruzzo e Molise. L’altro — oggi duro da scalfire — è che a massacrare erano solo i Sabaudi. Le stragi di banditi e ribelli (veri o presunti) e di semplici “cafoni” sbandati, e di donne e bambini erano già cominciate prima con i francesi, in maniera sistematica, e poi erano proseguite col restaurato regime borbonico. E c’è di più. Non solo tutto era cominciato molto prima dell’arrivo dei detestati “piemontesi”, ma in tutte le fasi la nascente borghesia locale ha dato man forte all’esercito – francese, borbonico o italiano — fiancheggiando i militari anche in catture e massacri. Senza il sostegno attivo dei “galantuomini” nessuno di questi eserciti avrebbe riportato successi significativi.
S’intitola La grande mattanza: Storia della guerra al brigantaggio il nuovo saggio di Enzo Ciconte edito da Laterza. Non una “controstoria”, ma un rigoroso, documentato saggio con cui l’autore ritorna, da una diversa angolazione, su un tema già affrontato con Banditi e briganti, edito da Rubbettino nel 2011, per ripercorrere la guerra infinita combattuta contro banditi e briganti dal Cinquecento ai primi decenni post-unitari. Per la prima volta in un quadro storico così ampio viene dipanato il racconto di oltre tre secoli di violenze efferate compiute soprattutto nel Meridione — una guerra in piena regola —, ma anche nel centro e nel nord del Paese: dal Lazio al Veneto, dal Piemonte alla Romagna.
Nella valutazione del fenomeno del brigantaggio, Ciconte, con il respiro storico, fa piazza pulita di luoghi comuni. Con fonti di prima mano (relazioni, rapporti, corrispondenze, atti giudiziari e di archivi civili e militari), l’autore scansa gli inganni e i cortocircuiti delle polemiche e le mitografie contrapposte. Nell’ambito del banditismo di “ancien régime” precisa una serie di distinguo: il banditismo di quell’epoca è “dalle molte facce. Una di queste rivolge l’attacco contro le proprietà baronali e i ricchi. E forse qui trova origine il mito del brigante che combatte il ricco a favore del povero”.
Eric J. Hobsbawm, nel suo saggio sul banditismo sociale, aveva elencato i “nove comandamenti” del bandito gentiluomo, uno stilema che segna e attraversa leggende e letteratura, il cinema e le ballate popolari: “Primo: non comincia la sua carriera di fuorilegge con un delitto, ma come vittima di un’ingiustizia o perseguitato per un’azione che l’autorità, ma non la sua gente, giudica criminosa. Secondo: raddrizza i torti. Terzo: prende dal ricco per dare al povero. Quarto: non uccide, se non per autodifesa o per giusta vendetta. Quinto: se sopravvive ritorna tra i suoi come un cittadino onorato, un membro della comunità. In effetti non si stacca mai interamente dalla comunità. Sesto: è ammirato, aiutato e appoggiato dai suoi. Settimo: egli muore invariabilmente ed esclusivamente per un tradimento, perché nessun membro che si rispetti della comunità sarebbe disposto a collaborare con le autorità contro di lui. Ottavo: il bandito è — almeno in teoria — invisibile e invulnerabile. Nono: non è un nemico del re o dell’imperatore, fonti di giustizia, ma soltanto dei signorotti locali, dei preti e di altri oppressori”.
Ciconte scova un Robin Hood “de noantri”, molto nobile e molto ribelle: è Alfonso Piccolomini di Acquapendente, duca di Montemarciano. Esponente dell’alta aristocrazia, imparentato coi Colonna e gli Orsini, è un signore feudale che allo spirare del Cinquecento si pone alla testa di bande di fuorilegge. La lotta è senza quartiere. Il suo feudo è posto sotto sequestro e il suo castello demolito. Lui risponde a modo suo, colpo su colpo. “Con 300 uomini irrompe nelle allumiere di Tolfa, fa interrompere la raccolta di allume e intima a chi vi lavora di lasciare la zona perché tra pochi giorni ritornerà per bruciare ogni cosa”. È determinato, Piccolomini. Si è messo in mente di tagliare le entrate del Papa, e ci riesce. Va dritto al cuore dello Stato e colpisce in modo duro. Arrivati a questo punto, tra le alte gerarchie ecclesiastiche matura il convincimento che sia necessario un accomodamento. E il pontefice del tempo, Gregorio XIII (il Papa che riformò il Calendario, ma anche quello che riconvertì a granai le Terme di Diocleziano) concede il perdono a quel perfido bandito e raggiunge l’accordo.
Ma la vita tranquilla non fa per lui. Alfonso si fa crescere la barba e la chioma fluente che aumenta il suo carisma, si unisce a un’altra leggenda dell’epoca, Marco Sciarra e mettono insieme una super-banda di cinquecento fuorilegge. Alla fine riescono a farlo prigioniero a Forlì il 5 gennaio 1591, ma lo processano a porte chiuse, è meglio che ad ascoltarlo non ci siano tante orecchie. “I suoi protettori possono dormire sonni tranquilli — scrive Ciconte — e far tacere l’ansia. A Firenze il suggello finale; è appeso al ferro del Palazzo del Podestà, dove penzola impiccato”.
Ma facciamo un salto di qualche secolo e scendiamo nel Regno delle due Sicilie. Qui, negli anni ’20 dell’800 i Borboni si ritrovano le province infestate di banditi. Così Ferdinando I nel 1822 nomina Commissario regio Saverio Del Carretto, un uomo-forte formato nella scuola militare Nunziatella di Napoli. Spietato e dai modi spicci, Del Carretto riunisce su di sé i poteri militari, civili e giudiziari e ha in testa un modello ben preciso, quello di Charles-Antoine Manhès, proprio lui, il generale napoleonico che poco più d’un decennio prima, l’allora Re di Napoli Gioacchino Murat, aveva incaricato con pieni poteri di eliminare il brigantaggio, con un mandato chiaro: “C’est une guerre d’extermination que je veux faire à ces misérables”.
Non lascia un buon ricordo dietro di sé il marchese Del Carretto: ricorre a stragi, devastazioni, ad assedi militari in piena regola. Passa in Calabria e mette a ferro e fuoco paesi interi. Ovviamente tra le vittime della repressione, oltre ai fuorilegge criminali comuni, finiscono anche oppositori politici. Ed ecco rasi al suolo interi abitati. Le vittime sono un’enormità. Tra i fucilati anche innocenti cittadini e finanche un canonico. Risulterà odiatissimo pure in Sicilia, dove arriva a seguito dell’esplosione del colera. Nelle zone colpite ci sono tumulti e insurrezioni. Fa incendiare Mililli e Cannegattini e scrive di suo pugno: “Finalmente ho ordinato di spianare il comune di Monterosso col cannone ed altri mezzi di distruzione”. Dietro di lui restano solo macerie.
Poi, vent’anni dopo, lo ritroviamo ministro della Polizia borbonica. È sempre alle prese col brigantaggio e con un capobanda temibile quanto leggendario in Calabria. Si chiama Giosafatte Talarico, è di Panettieri nella Sila Piccola e la vulgata lo vuole bello e ben nato. Commette un omicidio plateale per vendicare l’onore di sua sorella e poi si rifugia sui monti dove per vent’anni riesce a evitare la cattura. Signori e amici potenti gli garantiscono l’impunità, che gli permette di frequentare caffè e teatri e di passeggiare per le strade principali. È spregiudicato, insolente, coraggioso e anche abbastanza fortunato.
La polizia borbonica non si dà pace, organizza assalti generali, arresta parenti e presunti protettori. Ma fa un buco nell’acqua; anzi, fa peggio: alimenta il mito di un Talarico inafferrabile. Ha pochi compagni, ma dà fastidio, impensierisce, commette qualche omicidio selvaggio e crudele. Per catturarlo si pensa allora di ricorrere alle maniere forti. Il capitano Salzano crede di risolvere il problema come s’è fatto in passato e propone: “L’arresto e la deportazione di tutti i fautori e parenti dei fuorbanditi, il disarmo e lo spurgo della guardia urbana di Celico e dei Casali; l’ordine di fabbricare porte e finestre di tutti i casini e torri della Sila e sue adiacenze e bruciare tutti i tuguri e pagliai di poco valore; il divieto assoluto di transitare con cibarie”. È tutto scritto nel rapporto ufficiale inviato il 17 settembre 1842 al ministro di Polizia Del Carretto. Questa volta, però, è l’uomo di governo a respingere le maniere forti.
Il tempo è passato, insomma, e ha cambiato tante cose. Anche Del Carretto è cambiato; è un altro uomo e s’è lasciato alle spalle i furori e le ossessioni d’un tempo. Non sogna più paesi da radere al suolo: adesso ha altri pensieri che gli passano per la testa e lo fanno preoccupare: la repressione sanguinaria viene scartata perché altrimenti si “sanzionerebbe e proclamerebbe solennemente all’Europa la deplorabile e vergognosa idea di essere il brigantaggio male perenne e condizione costitutiva del nostro Paese”. L’argomento ha una sua forza, e le parole scritte indicano un sensibile mutamento nella politica del governo borbonico, che si preoccupa del giudizio dell’Europa.
La soluzione obbligata è, allora, quella del compromesso: una fosca trattativa, un patto Stato-Briganti, anteprima di altri futuri patti scellerati. Vista l’impossibilità di catturare Talarico, si decide di proporgli incolumità salvacondotto e vantaggi economici per indurlo a consegnarsi. È lo stesso Del Carretto ad avviare la trattativa incaricando vari intermediari che definiscono l’accordo. L’11 settembre 1845, nella sede dell’Intendenza di Cosenza, Del Carretto in persona legge l’atto sovrano di grazia che dichiara la cessazione di ogni provvedimento penale nei confronti di Talarico e dei suoi uomini e la relegazione nell’isola di Ischia. Talarico avrà una pensione, e il governo borbonico onora i suoi impegni e la pensione sarà riconosciuta — e pagata! — anche dal nuovo governo del Regno d’Italia.
Luigi Settembrini, nella sua celebre Protesta del popolo delle due Sicilie, bolla con parole di fuoco quella “capitolazione”: “Il ministro si è gloriato di aver liberato le Calabrie di un mostro […]. Il solo Del Carretto gendarme si può gloriare di quello che farebbe vergogna ad ogni uomo, di essere sceso ad accordo con un brigante, di dar cuore agli altri di divenir celebri briganti”. Stato di assedio, insomma, ma anche laute ricompense ai briganti che uccidevano altri briganti. E torture, fucilazioni, impiccagioni, stragi, cadaveri esposti come trofei. La guerra che il potere ha portato avanti — è questa la tesi di Enzo Ciconte — “riguarda quasi sempre le classi subalterne, infime come vengono definite in alcuni documenti, in particolare i contadini affamati e senza terra, i poveri, i nullatenenti, i caffoni meridionali”. Tutte “persone pericolose” e schedate come tali in una circolare del ministero dell’Interno del Regno d’Italia del 26 maggio 1866. Una guerra contro la miseria.
Nel libro vengono ricordati tantissimi atti di violenza compiuti da uomini in divisa col tricolore. Azioni di singoli ufficiali o una “cultura” condivisa da vertici e autorità? Generali convinti dell'”impotenza dei mezzi legali”, procuratori generali del re che parlano di “salutare terrore”, repressione, una vera e propria dittatura militare in tutte le regioni del Sud della nuova Italia.
Si può anche leggere come romanzo “noir” ricco di colpi di scena, il libro di Enzo Ciconte. Ma oltre le pagine da thriller sconvolgente, con la cronaca di loschi intrighi e il macabro Grand Guignol delle decapitazioni, degli squartamenti e delle stragi efferate, è soprattutto un saggio vivace e affascinante, scritto con stile scorrevole e sobrio. Sostanzia riflessioni e mette a fuoco le dinamiche di governo del territorio del Mezzogiorno d’Italia in condizioni estreme ed eccezionali (l’eterno “straordinario” del Sud…), come quelle dettate dall’insorgenza del “banditismo”. Prima e dopo l’unificazione.
Ciconte rende assai bene anche il delinearsi di quella che oggi chiamiamo “questione criminale”. E il rapportarsi dello Stato con tali problematiche. Osserva al riguardo l’autore: “Negli anni cruciali della costruzione dello Stato unitario c’è una guerra spietata ai briganti, ma la stessa durezza non è rivolta a fenomeni criminali e mafiosi noti e conosciuti in Campania, Sicilia e Calabria. Con i moderni agglomerati mafiosi lo Stato sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione. Per quanto armati, i mafiosi non sono percepiti come un pericolo o una minaccia da parte dello Stato o dei grandi proprietari che non si sentono insidiati nelle loro proprietà. È una scelta le cui conseguenze arrivano sino a noi”.
(Gianfranco Manfredi)