Nel dibattito politico di queste settimane i termini nomade e nomadismo sono riecheggiati più volte. Seguire l’evoluzione di questa parola può essere interessante (e riservare qualche sorpresa). Nomade si rifà al greco nomás, che a sua volta è un derivato di nomós “pascolo”. Nomadi sono i gruppi di uomini che periodicamente si spostano alla ricerca di pascoli più fecondi. Secondo il giudizio di Aristotele (Politica 1256a 31) il nomadismo è frutto di uno stile di vita neghittoso e passivo: “Gli uomini più pigri sono nomadi: il loro cibo proviene dagli animali domestici, mentre essi oziano; ma siccome è necessario per le bestie cambiare posto a causa dei pascoli, anch’essi sono costretti a seguirle, come se fossero agricoltori di una coltivazione vivente”.
In genere negli autori greci la qualifica di nomadi viene data a popolazioni primitive e lontane, che praticano l’agricoltura con metodi rudimentali, e quindi non sono capaci di valorizzare pienamente le potenzialità dei terreni in modo da trarne le risorse necessarie per l’alimentazione: per esempio gli abitatori della Scizia o dell’India. In latino la parola viene ripresa e adattata alle abitudini fonetiche della lingua, ma viene utilizzata per designare in modo specifico una popolazione, i Numidi, che abitavano nell’Africa settentrionale. Nella fase più antica la loro terra, la Numidia, fu un regno comprendente un insieme di tribù berbere, inizialmente alleato di Roma, in quanto la presenza minacciosa della vicina Cartagine spingeva a cercare appoggi e protezioni potenti all’estero, e successivamente, dopo il venir meno della potenza cartaginese e dopo vicende dinastiche complicate, fu in lotta con Roma, che alla fine, dopo una guerra aspra, soggiogò la regione facendone una provincia.
In italiano la parola nomade, prestito dalle lingue classiche, rimase a lungo confinata nel lessico della poesia: le prime edizioni dei Vocabolari della Crusca non dedicano neppure una voce apposita alla parola, e bisogna arrivare al XIX secolo perché nomade acquisisca la dignità di una voce propria nei lessici e il suo uso si diffonda al di fuori del lessico tecnico e intellettuale. Tra gli usi che troviamo registrati nei vocabolari vale la pena ricordare l’espressione scuola nomade, che secondo il vocabolario di Tommaseo-Bellini (1861) si dice “di maestri che vanno da luogo a luogo per borgate disperse, non potendo raccogliere in una terra insieme assai numero di fanciulli”.
Nomade, come detto, viene da nomós, e questa parola a sua volta deriva da un verbo némo, che propriamente significa “distribuire, fare le giuste porzioni”. Da questo verbo abbiamo un’altra derivazione che ha avuto una straordinaria importanza nella storia della Grecia e della cultura occidentale: nómos “la legge”, l’ordinamento che la società degli uomini si assegna per ripartire in modo congruo i diritti e i doveri di ciascuno e per regolare la vita sociale in modo armonico. Da nómos abbiamo una serie importante di derivazioni, che non attengono solamente alla sfera del diritto, della legislazione e dell’economia (p.es. nómisma, le istituzioni comuni, e in particolare la moneta), ma toccano più in generale anche la sfera del pensiero e delle attività intellettuali (nomízo “considero, ritengo”).
Dunque solamente un accento separa la legge (nómos) dal pascolo (nomós). La radice si ritrova anche al di fuori del greco: senza entrare in questioni tecniche complicate, ricordo solo che è alla base del lituano nãmas, la casa, e del tedesco nehmen “prendere”, nel senso di prendere possesso di ciò che legittimamente appartiene. Sullo sfondo emerge dunque la visione di un universo nel quale viene garantita a ogni individuo o insieme di individui una equa porzione del bene comune, e nomadi si dicono in origine i gruppi etnici che, in una situazione di povertà di risorse e di incapacità di gestire in modo proficuo l’attività agricola e pastorale, sono costretti a spostarsi continuamente, un po’ come gli uccelli migratori, che in alcuni autori greci sono detti appunto “uccelli nomadi”.