Depistaggi, manovre, doppigiochi, golpismi: un mix tra interessi di Cosa nostra e centro di potere ai quali Borsellino dava fastidio, dice la sentenza di Caltanisetta.
La storia dell’Italia repubblicana è finita in mano a una storiografia (e a una fiorente editoria) che si pasce di complotti, disegni criminosi, superfetazioni di poteri, animati anche da centri internazionali di destabilizzazione. Inizialmente il fine sarebbe stato di dimostrare che la mancata associazione al governo dei comunisti era all’origine del degrado politico-istituzionale del paese.
Ma è stato un grave errore di prospettiva e analisi storica.
Le prove poco eccellenti del Pci (e dei suoi eredi) nei governi locali e nazionali hanno indotto a spostare sulla magistratura l’asse delle responsabilità. Prima o poi ci si renderà conto che nel biennio 1992-1993 quando la mafia ha colpito i santuari di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino in Italia era in corso, quasi parallelamente, attraverso Mani pulite, la costruzione di un regime politico di impronta giudiziaria. La politica era finita alla gogna, grazie alla corruzione e ai finanziamenti illegali su cui era vissuta. I magistrati avevano assunto un ruolo addirittura moralizzante, di garanti della stessa moralità nell’azione politica.
Sarebbe opportuno che questa combinazione avuta negli anni 1992-1993 diventasse oggetto di una narrazione pacata, anche se non necessariamente condivisa, delle trasmissioni televisive sulla storia più recente. A guidarle è un giornalista potentissimo come Paolo Mieli. Ho, invece, poca fiducia che lo possano fare i giornaloni della reticenza e del pregiudizio come il Corriere della Sera e la Repubblica, dei quali Mieli è stato a lungo (ed è ancora) un esponente. Direi anche un dirigente, ma troppo intelligente per identificarsi in queste testate.
In assenza di tale lavoro critico (sono stati finalmente “assolti” personaggi “maledetti” come il generale Giovanni De Lorenzo e l’ex presidente dl Consiglio Fernando Tambroni) a occupare la scena sono le sentenze della magistratura, soprattutto di quella siciliana (ma anche, in alcuni periodi, di quella bolognese).
Mi pare stia assumendo il ruolo che è stato svolto, come dicevo all’inizio, dai settori meno responsabili, diciamo pure più avventuristi, della storiografia. Pertanto, anche sull’uccisione di Paolo Borsellino (il 19 luglio 1992) e dei poliziotti della sua scorta, come in passato su quella di Giovanni Falcone, sulla trattativa Stato-mafia ecc. le sentenze emesse in una serie di processi finiscono per ruotare intorno a depistaggi, manovre, doppigiochi, golpismi.
E’ il caso delle motivazioni, appena pubblicate, della Corte d’assise di Caltanissetta sul processo Borsellino quater. In 1856 pagine si cerca di configurare l’esistenza di un “disegno criminoso”.
Ricorrendo a servitori infedeli, depistaggi, falsi pentiti, documenti scomparsi, la strage di via D’Amelio avrebbe filtrato il convergere di interessi tra i corleonesi di Cosa nostra e i poco precisati “centri di potere” ai quali l’attività giudiziaria di Paolo Borsellino dava fastidio.
Che cosa resta, se non un grande falò di oltre 20 anni di indagini e di processi, delle condanne all’ergastolo — per la strage di Via D’Amelio — dei boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, e dei dieci anni di carcere per calunnia comminati ai collaboratori di giustizia Francesco Andriotta e Calogero Pulci?
Invece per il loro collega Vincenzo Scarantino, esperto nell’arte della ritrattazione, è scattata la prescrizione. E, aspetto non meno stupefacente, a tenere bordone alla falsificazione di indagini e prove delle bande levatesi contro Borsellino fino ad eliminarlo sarebbe stato il gruppo di investigatori capeggiato dal questore palermitano Arnaldo La Barbera. Il funzionario di polizia (deceduto nel 2000 per cancro) indagava sulle carneficine del 1992.
Borsellino è stato probabilmente vittima della mancata approvazione della trattativa Stato-mafia avviata dopo la strage di Capaci. Fu un ostacolo ad essa.
Ha ragione Franco Roberti, ex procuratore nazionale antimafia, a rilevare (nel luglio 2017 in occasione della commemorazione davanti al Consiglio superiore della magistratura del 25esimo anniversario della strage di via D’Amelio) che “la decisione di uccidere Borsellino fu accelerata proprio perché … se fosse divenuto procuratore nazionale antimafia, dopo la morte di Giovanni Falcone… si sarebbe certamente opposto alla trattativa”. Da cui la decisione di Cosa nostra di “ricorrere a un secondo clamoroso delitto in così breve tempo”.
L’accusa della Corte di Caltanissetta è di una macchinazione (uno dei più gravi depistaggi della storia italiana) attuata con “una serie di forzature” e “indebite suggestioni”. Secondo i giudici nisseni si voleva garantire un’impropria circolarità tra i diversi contributi dichiarativi, “tutti radicalmente difformi dalla realtà se non per l’esposizione di un nucleo comune di informazioni del quale è rimasta occulta la vera fonte”. In questo contesto si colloca il collegamento tra il depistaggio e l’occultamento dell’agenda rossa di Paolo Borsellino. Essa “conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci”.
L’ex questore La Barbera è accusato di averla fatta sparire e più in generale di avere costruito una rete di “false collaborazioni”. E tre poliziotti del suo gruppo (Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo) sono stati rinviati a giudizio su richiesta del procuratore aggiunto di Caltanissetta Gabriele Paci e del sostituto Stefano Luciani.
Siamo in presenza di una nuova, ulteriore versione della collaborazione tra la criminalità mafiosa e pezzi dello Stato. E’ la stessa melassa in cui è vissuto Totò Riina. Per le molte informazioni che gli hanno consentito di vivere indisturbato, cioè abbastanza tranquillamente, in un appartamento nel centro di Palermo, il merito va al paziente lavoro di violazione dei propri obblighi istituzionali e morali di molti dirigenti dello Stato.
L’accusa dei magistrati della Corte nissena è di una gravità, e importanza, inaudita: “È lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento ad alcuni elementi”. Parla, anzi specifica che furono i “soggetti inseriti nei suoi apparati” ad indurre Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni.
Gli uomini dello Stato chiamati in causa sono alcuni investigatori del gruppo Falcone e Borsellino che nel 1992 erano agli ordini dall’allora capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera. Nel loro comportamento c’è stata una distorsione che richiederà un nuovo processo. Infatti, invece di individuare i responsabili delle bombe di Capaci e via D’Amelio, si dedicarono alla costruzione a tavolino di alcuni falsi pentiti.
Dopo quattro processi e quasi 26 anni dopo, i giudici di Caltanissetta sull’attentato che costò la vita a Paolo Borsellino e alla sua scorta richiamano la necessità di un’indagine su un funzionario e due agenti di polizia.
Il pool di cui fecero parte avrebbe dovuto fornire i nomi dei mandanti e degli esecutori. Invece si dedicarono ad un altro, losco mestiere, quello di depistare le indagini, far sparire dei documenti, e inventarsi un pentito fittizio, falso, come Vincenzo Scarantino (che dagli uomini di La Barbera sarebbe stato indotto ad auto-accusarsi di essere l’autore materiale della strage di Via D’Amelio). I suoi verbali, secondo questi giudici, furono manomessi, cioè aggiustati, per suggerire le persone da incolpare.
Restano come pietre le confessioni della famiglia Borsellino. “Abbiamo avuto un balordo della Guadagna come pentito fasullo e una Procura massonica guidata all’epoca da Gianni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo…”; “Venticinque anni di schifezze e menzogne — dice Fiammetta Borsellino —. Nessuno si fa vivo con noi. Non ci frequenta più nessuno, magistrati o poliziotti. Si sono dileguati tutti. Le persone oggi a noi vicine le abbiamo incontrate dopo il ’92. Nessuno di quelli che si professavano amici ha ritenuto di darci spiegazioni anche dal punto di vista morale”.