Le recentissime motivazioni della sentenza emessa tre mesi fa dal Tribunale di Palermo confermano un esito che sembrava incerto o solo opinabile (da parte del quotidiano Il Foglio): cioè che la trattativa tra corpi dello Stato (che l’hanno sollecitata) e la mafia c’è stata, eccome.

Ebbe inizio, all’insaputa della magistratura, nel periodo immediatamente successivo alla strage di Capaci e continuò fino al 1994. Se si fosse realizzata la carneficina degli agenti di guardia programmata dai fratelli Gavriano allo Stadio Olimpico di Roma, per lo Stato, piegatosi all’impero dei boss per iniziativa di un ceto politico irresponsabile e pauroso, sarebbe stato la sua messa in ginocchio, il collasso.



L’obiettivo non fu il rapporto mafia-appalti (della cui inchiesta Paolo Borsellino era titolare incaricato). Fu piuttosto quello di accelerare l’eliminazione del giudice. Aveva saputo del dialogo instauratosi tra il Ros e Ciancimino e lo osteggiava.

A radicalizzare la posizione di Totò Riina fu “il segnale di debolezza” (come dicono il presidente Alfredo Montalto e il giudice Stefania Brambilla), cioè la manifestazione di disponibilità dato dagli uomini delle istituzioni a recepire le richieste di Cosa nostra in cambio della cessazione della strategia dell’attacco frontale allo Stato.



Insieme a quella con esponenti delle Brigate Rosse per creare “una verità di comodo” (oggetto di un importante saggio di Fabio Lavagno e Vladimiro Satta, Moro. L’inchiesta senza finale, Edup, Roma 2018) la trattativa è stata una ferita orribile a carico dello Stato di diritto. A condurla furono gli alti ufficiali dell’Arma dei Carabinieri (dei Ros) Mauro Mori, Antonio Subranni e Giuseppe De Donno con l’ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino, che rappresentava i suoi compaesani di Corleone, Totò Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella e Antonino Cinà.

A dare esecuzione alla politica del superamento del “muro contro muro”, cioè della contrapposizione frontale fu il ministro della Giustizia nel governo guidato da Ciampi, Giovanni Conso. Uomo probo e grande giurista, a lui si deve l’iniziativa straordinariamente generosa di non prorogare a carico dei killer di Cosa nostra il regime penitenziario duro (quello previsto, grazie al decreto dell’8 giugno 1992, dal 41bis del nostro ordinamento penitenziario).



Si trattò di un cedimento plateale e inspiegabile. Riina lo interpretò come la prova che poteva osare di più e, anzi, poteva costruire un rapporto assai conveniente con i nuovi soggetti politici rappresentati da Silvio Berlusconi. Nella relazione di sintesi presentata dal sen. Beppe Pisanu alla Commissione parlamentare antimafia da lui presieduta sono aspetti documentati e chiariti molto bene. Malgrado la scarsa o nessuna collaborazione degli archivi dei Ros e dei servizi.

Mi pare che il pm palermitano Antonio Ingroia a suo tempo abbia impostato correttamente i termini, chiedendosi “se sia giusto, moralmente ed eticamente, trattare con la mafia senza denunciarlo all’autorità giudiziaria. Il commerciante — che sia stato vittima di un’estorsione come il pagamento del pizzo —, se non lo ammette quando viene interrogato, risponde di falsa testimonianza, o a volte di favoreggiamento. Lo stesso dovrebbe valere se la minaccia investe lo Stato e se il rappresentante dello Stato dovesse decidere di trattare”.

E’ vero che la trattativa, per quanto opinabile da un punto di vita etico o religioso, non è un illecito, come ha dimostrato Giovanni Fiandaca. Ma essa ha avuto un costo pesante perché nel 1993, invece di far arretrare le stragi, le ha accelerate. La prima vittima è stato chi come Paolo Borsellino (e i 5 agenti della sua scorta) ha cercato di mettersi di traverso, cioè di impedirla. 

Tuttavia, occorre aggiungere che la magistratura penale di Palermo ha commesso un errore molto grave. Non tanto nel perseguire la trattativa, quanto nell’essersi mossa con la presunzione (con un forte investimento etico) di poter processare la storia del nostro paese e di declinare in forme nuove il rapporto giustizia-politica.

Se leggiamo la sentenza sul processo Andreotti emessa dalla Corte presieduta da Salvatore Scaduti (con i consiglieri Mario Fontana, Gioacchino Mitra e i sostituti procuratori della Repubblica Anna Maria Leone e Daniela Giglio) e le memorie e le analisi di Antonio Ingroia e dei suoi collaboratori, una differenza balza agli occhi.

Nel primo caso, i rapporti con la mafia fino alla primavera 1980 dell’ex premier democristiano e l’azione di contrasto verso di essa sviluppata dai suoi ministri della Giustizia Claudio Martelli e dell’Interno Vincenzo Scotti, sono affrontati con il vecchio metodo: l’indagine fondata sulla ricerca della prova, il controllo delle testimonianze, il rifiuto di pregiudizi e di ogni tipo di idola: “Se deve, in termini generici, respingersi il metodo valutativo improntato alla frammentazione del quadro probatorio, deve, però, affermarsi la tendenziale necessità di una inevitabile, rigorosa valutazione di ciascun fatto, senza che ciò implichi, comunque, una imprescindibile, precisa conferma esterna di ogni singolo episodio”. L’aggancio alla tradizione ritorna per quanto concerne la coltivazione del dubbio, il principio legale fondato sulla precisa valutazione dell’attendibilità di fatti e testi specifici, concreti.

Invece in Ingroia, Di Matteo, Scarpinato si sente un altro, diverso, dominante afflato. Domina una concezione della giustizia penale intesa come ideologia di ruolo: rinnovare il sistema politico, favorire il miglioramento della moralità pubblica, se non addirittura fondare dei nuovi partiti. Gli atti giudiziari avrebbero come obiettivo il miglioramento qualitativo della nostra politica. Non solo il suo rinnovamento, ma anche l’dea che la giustizia penale debba avere a cuore il compimento di rivoluzioni civili (non è casuale che questo sia stato il nome scelto da Ingroia per il suo partito durato l’espace d’un matin), la tutela dell’etica comunitaria.

Quanto l’atto dell’allora ministro Conso è stato autonomo, personale, cioè non concordato con altri ministri, con il presidente del Consiglio Ciampi o con lo stesso capo dello Stato Oscar Luigi Scalfaro?

A sollevare questi dubbi è un rapporto dell’inverno 2012 consegnato a Beppe Pisanu come presidente della Commissione parlamentare anti-mafia. Si intitolava “Stragi e trattativa”. Gli autori erano i magistrati siciliani Salvatore Scaduti (quello che guidò il processo contro Andreotti, assolvendolo a metà) e Antonio Tricoli, quello milanese Marco Alma, e uno storico (chi scrive, che ha raccontato l’intera vicenda nel volume Dopo Falcone e Borsellino come mai lo Stato trattò con la mafia?, Goware 2017). Purtroppo il documento è stato praticamente secretato, nel senso che non risulta essere facilmente accessibile.

L’avvio della trattativa ebbe una prima vittima nell’estromissione, mai motivata, dall’ufficio del Dipartimento affari penitenziari di Pasquale Amato (che lo dirigeva da 11 anni) e nella sostituzione — per la verità non imposta, ma concordata — dei ministri della Giustizia (Claudio Martelli) e dell’Interno (Vincenzo Scotti) nel nuovo esecutivo capeggiato da Ciampi. 

Poco motivato nella sentenza della Corte è il collegamento della mafia con Berlusconi. E’ vero, anzi risaputo, che fino al 1994 aveva versato fiumi milionari di quattrini all’onorata società, attraverso Marcello Dell’Utri e lo “stalliere” Vittorio Mangano. Ma un magistrato in una sentenza non può ricorrere a un lessico para-giuridico di tipo deduttivistico come “non poteva non sapere”, “ragioni logico-fattuali” eccetera. Questa è una tecnica inquisitoria e colpevolizzante da cui nessuno si può difendere.

Bisogna decidersi a dire se esistono elementi probatori minimamente seri sui rapporti tra Berlusconi e i boss che hanno condotto il negoziato con pezzi dello Stato. Diversamente si finisce per suonare la stessa musica e demonizzare lo stesso leader politico. 

La stessa esigenza di maggiore circospezione se non rigore, si pone per quanto concerne l’ex ministro dell’Interno Enzo Scotti. C’è stata da parte dell’ex capo dello Stato Scalfaro e del segretario della Dc Arnaldo Forlani la decisione di sostituirlo perché inviso ai boss, o perché intendeva dedicarsi al lavoro di partito, attività che nella Dc di quei tempi era incompatibile con quello di ministro?

Non mi pare che il ruolo di servizi segreti e corpi di destabilizzazione stranieri, in combutta con la mafia, prospettata dal premier Giuliano Amato e dall’ex capo della polizia sia stato approfondito come per la verità meritava. Ma debbo confessare che non ho avuto modo di consultare le oltre 5200 pagine delle motivazioni della sentenza emessa ad aprile dalla Corte di Palermo palermitana. Temo che siamo solo all’inizio di una lunga partita giudiziaria.