Surreale come le maschere di Salvador Dalí indossate dai suoi protagonisti, La Casa di Carta (regia di Alex Pina) sta spopolando tra gli appassionati del genere. Prima in assoluto tra le serie non prodotte in lingua inglese, l’ultimo dei successi di Netflix sta dividendo pubblico e critica in due partiti contrapposti che la paragonano a un capolavoro o la stroncano senza appello. 



Chi ha provato a passare dall’intrattenimento a cogliere il “succo” della serie spagnola si è trovato di fronte a una stratificazione di senso a mo’ di cipolla, a partire dal messaggio sovversivo che gli otto rapinatori (sei uomini e due donne) lanciano al mondo occupando la zecca di Stato spagnola e stampando carta moneta a go go. La dimensione mondiale è assicurata dai nomi dei rapinatori che coincidono con altrettante capitali mondiali: Mosca, Denver, Rio, Berlino, Nairobi, Tokyo, Oslo, Helsinki. 



Un secondo strato è quello utopistico: la realizzazione di una rapina talmente perfetta da non comportare alcun reato, perché i soldi non sarebbero rubati, ma appunto “stampati”. Altri critici ci hanno visto un riflesso della protesta degli indignados per la crisi economica e altri ancora una critica radicale alle banche, arrivando a sventolare il vessillo rivoluzionario di Bertolt Brecht: “Cos’è rapinare una banca a paragone del fondare una banca”. Frase a effetto ma poco realistica, perché di rivoluzioni che abbiano abolito le banche non ne sono esistite, semmai “dans la revolution”, come avrebbe detto il vecchio Proudhon, le banche cambiano proprietario. Vero è che quando una banca commette un illecito dà luogo a uno scandalo, perverte i propri fini truffando i propri clienti, oppure quando la finanza si trasforma in una slot machine, il timore che si diffonde nella società sfocia nel panico. E a ben guardare a ragione, perché una banca è la materializzazione della fiducia, il bene immateriale fondamentale (dal valore inestimabile) per qualsiasi aggregato umano. 



Il nesso tra fede e banca lo ha argutamente messo in evidenza il filosofo Agamben raccontando della scoperta del biblista David Flusser, storico del primo cristianesimo e del giudaismo del Secondo Tempio, quando meditando sulla scelta della parola fede (pistis) nella Lettera agli Ebrei si imbatté, in pieno centro ad Atene, nella scritta a caratteri cubitali: trapeza tes pisteos (banco di credito). David Flusser era difronte a una banca. Ecco svelato il senso della parola fede nel contesto della lettera di Paolo: “sostanza di cose sperate”, la fede “dà realtà e credito a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola”. 

Ma voltiamo pagina e lasciamoci alle spalle la suggestione luccicante della banca e del denaro gratis, per immergerci nelle altre stratificazioni della Casa di Carta: la donna, la resistenza e il padre. La rappresentazione della quarta ondata del femminismo nella lettura di Alex Pina, affidata alle protagoniste femminili della serie, non prevede né quote rosa, né la battaglia per la parità di retribuzione (la spartizione del bottino è paritaria da subito), ma si focalizza sugli affetti: la ragazza diffamata via Internet con un video hot, la madre single che userà la refurtiva per riprendersi il figlio che è stato allontanato da lei, l’incostante affettiva che distrugge tutti i suoi rapporti e riesce, alla fine, a costruire un legame stabile, la donna che spezza il giogo della violenza subita ma non rinuncia a costruire, su altre basi, la relazione con un uomo. Tra tutte la figura più contro corrente è la post-abortista Monica Gaztambide (una degli ostaggi), la cui rinuncia all’aborto è prima passata dalla sua totale accettazione culturale.

Una delle mosse più convincenti del regista è stata quella di inserire nei momenti topici della serie la canzone partigiana “Bella ciao”. Apparentemente fuori contesto, “Bella ciao” diventa l’inno della serie, tanto collettivo che individuale, un canto che veicola al pubblico un messaggio trasversale: salvarsi si può, ma bisogna resistere!

E ora il padre, o meglio le tracce di ciò che ne resta in questa elucubrazione televisiva. 

La centralità del rapporto col padre è ribadita dal regista in più passaggi della serie: nel rapporto tra Mosca e Denver (padre e figlio entrambi membri della banda), nel desiderio di un padre da parte di Tokyo, nell’assenza del padre per il figlio di Nairobi, nella paternità adottiva di Rio e (fuoco d’artificio finale) nell’imprevedibile e commuovente recita comune del Padre Nostro che sgorga (contagioso, imperfetto e incompleto) dalla memoria inconscia di uno dei banditi in una delle ultime puntate.

Ma non si tratta solo di singoli richiami, perché tutta la storia della Casa di Carta è il sogno di un padre ereditato dal figlio: il sogno del padre del Professore, il protagonista principale della serie a cui si deve il progetto e l’ideologia della rapina. All’insaputa del figlio, allora piccolo e gravemente malato, il padre era un rapinatore che narrava le proprie gesta al figlio come se fossero episodi di un romanzo giallo o di un thriller, appassionandolo al “sogno” della rapina perfetta. Solo molto più tardi il Professore si rese conto che quei racconti erano reali: tanto reali che il padre vi trovò la morte ucciso dai colpi di una guardia giurata, non lasciando al figlio che la mala eredità di quel sogno incompiuto. Senza eredità non c’è paternità, ma neppure un’eredità avvelenata fa davvero paternità. 

La mente va alla regola che ha traghettato l’umanità fuori dalle faide ancestrali e che insegna a non far ricadere le colpe dei padri sui figli. Tale regola dovrebbe valere anche per i sogni, che sono sempre individuali. Non c’è nulla di più alienante che dover vivere il sogno di un altro, foss’anche quello del migliore dei padri. 

In questo genere di cose meglio regolarsi con la norma pratica (a produzione individuale): a ciascuno il proprio sogno, la responsabilità di interpretarlo e il lavoro per realizzarlo. Senza questa capacità di rottura San Francesco sarebbe diventato — con tutto il rispetto per i piazzisti — un piazzista di broccati.