Quando viene pubblicata, il 25 luglio del 1968, l’enciclica di Paolo VI Humanae Vitae, l’ultima prima di un decennio di silenzio magisteriale, ma non pastorale e spirituale, si presenta come una sintesi perfetta della visione ampia e profonda che Giovanni Battista Montini ha sempre avuto dell’amore, dell’amore umano, coniugale, con le sue espressioni affettive e sensuali e con la sua dimensione spirituale che, in sé, è già una perfetta chiamata alla santità. E al matrimonio e alla famiglia, loro compimento sacramentale e storico, offre un’attenzione particolare, una predilezione pastorale, sicuro che in quel misterioso processo qual è l’amore, Dio fa cose grandi. 

Alla radice vi è l’esperienza personale, osservata, ammirata, contemplata, dell’amore dei propri genitori, Giorgio e Giuditta, un amore pieno, che quasi diviene il modello di una visione della coniugalità che resterà intatta per tutta la vita. Ma certo, nella particolare sensibilità montiniana per l’affettività, un ruolo non secondario l’ha l’esperienza di condivisione umana e spirituale delle inquietudini giovanili degli studenti universitari di cui Montini, per qualche anno, siamo alla fine degli anni Venti, è guida spirituale. 

L’Humanae Vitae raccoglie e sintetizza insomma una sensibilità straordinariamente viva e vitale, collocandosi in un momento storico travagliato e in un clima culturale segnato da una profonda tendenza alla destrutturazione di ogni legame umano, alla liquefazione di ogni significato, alla mistificazione della parola stessa, che confonde, giustifica, inganna.

Amore: il magistero montiniano in proposito è assai articolato, mai dottrinale e inquisitorio e si muove sempre su due piani: da una parte la ricerca della pertinenza e della solidità della parola che descrive la cosa e dall’altra l’esperienza, in cui si colloca il nocciolo costitutivo dell’umanesimo montiniano: la realizzazione piena dell’umano, la ricerca di una vera, unica e possibile, felicità. Parola complessa quest’ultima, sottoposta a tali e tante manipolazioni da imporsi come la radice di ogni equivoco, il terreno fertile su cui opera con grande successo la lingua incantatrice del demonio, il grande seduttore, il mistificatore, l’origine di ogni male. Il risultato sembra essere quello che già aveva indicato Marcuse nel suo Uomo a una dimensione: “un’euforia nel mezzo dell’infelicità”.

Così occorre per Montini innanzitutto ricostituire nella sua originale natura proprio la parola e il suo significato originario. “L’amore vero — sottolinea Montini — è l’atto cosciente e volontario verso il bene. La natura ci aiuta a dirigerci verso il bene; l’inclinazione, amore istintivo e sensitivo, si fa atto di volontà; diventa vero amore; si tratta allora d’una duplice operazione: la scelta e la forza”.

Per Paolo VI, sul finire del magnifico e terribile decennio che ha visto la sua elezione al soglio pontificio, la chiusura del Concilio, le controversie interne ed esterne circa la sua applicazione che vanno al cuore della natura stessa della storia della Salvezza e della Chiesa, si tratta di riprendere la parola e dare dell’amore la giusta definizione, ridargli il giusto linguaggio, la sua vera prospettiva, difenderlo dalle insidie della sua mistificazione demoniaca. Si tratta di riproporre agli uomini e alle donne che vivono le lusinghe della modernità e soprattutto ne assumono i paradigmi lessicali e — dunque — interpretativi, le sole vere parole che dicono l’amore.

L’Humanae Vitae viene promulgata, dopo quattro anni di ricerche, di studi, di valutazioni, di ascolto di pareri. “Risponde questa Enciclica — spiega Paolo VI pochi giorni dopo la pubblicazione — a questioni, a dubbi, a tendenze, su cui la discussione, come tutti sanno, si è fatta in questi ultimi tempi assai ampia e vivace, e su cui la Nostra funzione dottrinale e pastorale è stata fortemente interessata. Il primo sentimento è stato quello d’una Nostra gravissima responsabilità. Esso Ci ha introdotto e sostenuto nel vivo della questione durante i quattro anni dovuti allo studio e alla elaborazione di questa Enciclica. Vi confideremo che tale sentimento Ci ha fatto anche non poco soffrire spiritualmente”. 

Paolo VI sa perfettamente quali attese si fossero appuntate sull’enciclica, e quali discussioni essa avrebbe innescato. Il tema dell’amore e della sua espressione sensibile e storica era ed è cosa troppo importante nella vita di ogni uomo e di ogni donna. “Non mai abbiamo sentito come in questa congiuntura il peso del Nostro ufficio. Abbiamo studiato, letto, discusso quanto potevamo; e abbiamo anche molto pregato. Alcune circostanze a ciò relative vi sono note: dovevamo rispondere alla Chiesa, all’umanità intera; dovevamo valutare, con l’impegno e insieme con la libertà del Nostro compito apostolico, una tradizione dottrinale, non solo secolare, ma recente, quella dei Nostri tre immediati Predecessori; eravamo obbligati a fare Nostro l’insegnamento del Concilio da Noi stessi promulgato; Ci sentivamo propensi ad accogliere, fin dove Ci sembrava di poterlo fare, le conclusioni, per quanto di carattere consultivo, della Commissione istituita da Papa Giovanni: di venerata memoria, e da Noi stessi ampliata, ma insieme doverosamente prudenti; sapevamo delle discussioni accese con tanta passione ed anche con tanta autorità, su questo importantissimo tema; sentivamo le voci fragorose dell’opinione pubblica e della stampa; ascoltavamo quelle più tenui, ma assai penetranti nel Nostro cuore di padre e di pastore, di tante persone, di donne rispettabilissime specialmente, angustiate dal difficile problema e dall’ancor più difficile loro esperienza; leggevamo le relazioni scientifiche circa le allarmanti questioni demografiche nel mondo, suffragate spesso da studi di esperti e da programmi governativi; venivano a Noi da varie parti pubblicazioni, ispirate alcune dall’esame di particolari aspetti scientifici del problema, ovvero altre da considerazioni realistiche di molte e gravi condizioni sociologiche, oppure da quelle, oggi tanto imperiose, delle mutazioni irrompenti in ogni settore della vita moderna”.

La prospettiva che il pontefice addita per una corretta lettura dell’enciclica è quella “personalistica, propria della dottrina conciliare, circa la società coniugale, dando così all’amore, che la genera e che la alimenta, il posto preminente che gli conviene nella valutazione soggettiva del matrimonio” riconoscendo “ai coniugi la loro responsabilità e quindi la loro libertà, quali ministri del disegno di Dio sulla vita umana, interpretato dal magistero della Chiesa, per il loro bene personale e per quello dei loro figli”, a difesa “della loro dignità”, per “comprenderli e (…) sostenerli nelle loro difficoltà”, al fine di “educarli a vigile senso di responsabilità, a forte e serena padronanza di sé, a coraggiosa concezione dei grandi e comuni doveri della vita e dei sacrifici inerenti alla pratica della virtù e alla costruzione d’un focolare fecondo e felice”.

Vi è in Paolo VI la certezza che gli sposi cristiani e tutti gli uomini di buona volontà capiranno che “la Nostra parola, per severa ed ardua che possa sembrare, vuol essere interprete dell’autenticità del loro amore”. E se c’è una narrazione dell’amore che illude, che diverte, che schiaccia l’esperienza più grande ed umana al livello della caricatura, della barzelletta… Se c’è una narrazione dell’amore che radica nella menzogna, nella prospettiva cristiana “la prima cosa che si deve osservare nel matrimonio è il suo carattere sacro” e c’è un solo linguaggio che lo definisce e lo sublima, il linguaggio della carità: “Osiamo dunque pronunciare una grande parola: carità è diventato l’amore. Questo sacro impegno d’amore vivificato dalla grazia è infatti carità: coniugale, patema e materna; quella carità, che genera ed esige l’incremento di tutte le virtù, non solo di tutta la vita cristiana, ma anche della vita familiare”.

L’ultima enciclica di Paolo VI appare così come un grido appassionato e disperato per la salvezza dell’intera esperienza umana e religiosa. Perché minando la natura dell’amore, fiaccando la capacità d’amare dell’uomo, sovvertendo i significati della parola che lo descrive, viene minata l’intera costruzione millenaria che ha fondato la propria esistenza proprio sulla natura sacra dell’amore. Paolo VI si rende conto che in gioco non vi sono solo comportamenti sbagliati, debolezze umane come ce ne sono state sempre nella storia dell’umanità. La questione è ben più grave e profonda. Il demonio si è impossessato del linguaggio dell’amore, lo ha sovvertito, lo ha mistificato, lo ha reso liquido, ineffabile, impalpabile, facile, aderente alle esigenze del momento, moderno, a basso costo, consumabile. 

La vita e la felicità degli uomini: ecco il terreno su cui si muove l’enciclica, a partire dalla certezza che la Chiesa è essa stessa “maestra d’umanità”, d’una umanità piena, concreta, niente affatto angelistica. Rifiutando ogni tentazione, presente in alcuni settori della Chiesa, di proporre agli sposi cristiani un rigoroso impianto dottrinale e precettivo e di snaturare il matrimonio riducendolo ad una forma di imperfezione della vita spirituale — come ha recentemente mostrato Gilfredo Marengo nell’opera La nascita di un’enciclica. Humanae vitae alla luce degli Archivi Vaticani — Paolo VI rivendica per l’esperienza d’amore e per lo status matrimoniale una naturale vocazione proprio in quanto espressione di un “amore pienamente umano, vale a dire sensibile e spirituale”. Si tratta per Paolo VI di affrontare la questione dell’amore coniugale e della sua prospettiva generatrice “nella luce di una visione integrale dell’uomo e della sua vocazione, non solo naturale e terrena, ma anche soprannaturale ed eterna”.

Anche in questo caso non viene mai meno, in Papa Montini, la visione epica della vita, la sola che possa garantirne il senso, anche nell’ordinaria esistenza, umile e povera. Vite grandi perché eroiche di un eroismo domestico. L’alternativa di una facile scorciatoia, pur nella consapevolezza che “i cambiamenti avvenuti sono infatti di grande importanza e di vario genere”, non solo pone questioni di ordine morale personale, ma si affaccia alla ribalta della società secolarizzata, come invasiva e drammatica operazione di potere, come inaccettabile intromissione del potere e dello Stato in una sfera delicata e personale, in cui il preziosissimo tesoro degli sposi è custodito in vasi d’argilla.

Ma vi è un’altra questione decisiva che l’Humanae Vitae pone con evidente modernità e che si proporrà all’attenzione dell’uomo moderno soltanto qualche anno più tardi: il rapporto tra esperienza naturale ed esperienza artificiale. Insomma, il Papa si pone una delle domande cruciali della modernità che riguardano proprio il senso e il peso, il valore della tecnica nella vita dell’uomo, fin dentro lo spazio misterioso dell’innesco vitale. Non che Montini disconosca i progressi dell’uomo, le sue conquiste, le sue invenzioni. Come sempre è la questione dei fini (e dei significati) che lo preoccupa e soprattutto la possibilità del pensiero dell’uomo di riconoscere gli estremi della propria piena umanità. 

L’Humanae Vitae costituisce indubbiamente il punto centrale della visione diagnostica e della proposta etica e antropologica di Papa Montini sul tema della vita. Paolo VI coglie innanzitutto che le trasformazioni del costume e della mentalità incidono in primis su una nuova consapevolezza della sfera della sessualità e sulla sua gestione ed hanno ricadute significative non solo sulla natura stessa della relazione coniugale e sulla famiglia, anche in ambito cattolico, ma su un’intera visione di società e, in fondo, di umanità. Una società individualistica e sempre più emotiva: questo è il quadro di riferimento che ha davanti il Papa. Inutile sottolineare come tale deriva abbia portato a risultati devastanti proprio sul piano di una felicità possibile dentro l’orizzonte della “comunità d’amore” indicato dallo stesso Paolo VI. In questo senso la risposta autonoma di Montini alle grandi questioni teologiche e morali che sottostanno all’enciclica, che il Papa ha sì affidato ad un’apposita commissione ma di cui non accoglie le conclusioni,  pone al centro della riflessione della Chiesa l’amore coniugale come amore pienamente umano, totale, fedele e fecondo, e come principio primo della società. E la famiglia come cellula vitale della Chiesa stessa, suo seme misterioso, prefigurazione della stessa Chiesa. “Chiesa domestica”, “cellula di Chiesa”, “piccola Chiesa”: la famiglia diviene il luogo santo del compimento cristiano, della fede vissuta come esperienza completa, dunque profondamente umana e insieme tesoro nelle mani di Dio.

L’Humanae Vitae diviene così un inno all’amore, il grido appassionato di chi intravvede i rischi di una disumanizzazione che si profila innanzitutto nello spazio più libero, più profondo, più vivibile: la famiglia. Perché all’origine della storia della Salvezza, antica e nuova — spiega Paolo VI — vi sono proprio due coppie: la prima (Adamo ed Eva) è portatrice del peccato; la seconda (Giuseppe e Maria) è l’inizio della redenzione. Preservare e promuovere questo nucleo germinale diviene impegno profondo, radicale anche se, apparentemente, sconfitto. Ma per Paolo VI, si sa, è meglio perdere che equivocare. Perché nella sconfitta è fatta salva la verità, il nucleo prezioso da cui è possibile ricominciare.