La parola sfida non mi piace. E’ dura come suono, abusata in ogni ambito, ambigua nel significato.
Deriva dal latino dis-fidere, togliere la fiducia. E l’etimologia comincia a chiarire alcune cose.
Perché le partite di calcio sono spesso definite sfide? O la produzione e il commercio, fino alle competizioni elettorali? Si toglie la fiducia al lavoro e al consumatore, oppure si cerca di accrescerla attraverso realizzazioni migliori di altre?
In ambito sociale si ripete questa parola fino alla noia, cioè fino all’inefficacia. La sfida della globalizzazione, la sfida del mondo di oggi alla Chiesa, la sfida della nuova evangelizzazione: e quando mai non è stato così? Erano un pugno di uomini e sono arrivati ai confini dell’Impero, al suo centro, la Roma corrotta di cui parla Tacito. Erano contadini e hanno reso fertili le terre europee a colpi di zappa e di preghiera, considerati ignoranti e hanno tramandato la cultura antica sulla quale si fonda anche quella moderna. Quando si sono arricchiti hanno commesso gravi errori, ma il mondo sarebbe più povero senza quello che hanno costruito in chiese, palazzi, dipinti e musica.
E fin qui passi. Ma non si può proprio ascoltare quello che viene detto spesso e in modo improprio, cioè il fatto che Gesù sfida la libertà dell’uomo. Gesù non toglie la fiducia proprio a nessuno, fosse anche il più incallito peccatore, il più pervicace nel negare Dio. Se ha sfidato qualcuno, lo ha fatto con i farisei, per smascherare la loro ipocrisia e riportarli alla serietà dell’Alleanza. Gesù è amico dell’uomo e un amico non toglie mai la fiducia, neanche nel caso che l’altro se lo meritasse.
Converrebbe perciò ridimensionare l’uso di questa brutta parola, attraverso la riflessione sul suo significato proprio, non traslato e soprattutto non adoperarla come una metafora mal riuscita per ogni forma di competizione, gara, battaglia, dialettica, discussione.
Oppure leggere i poeti. Quelli che lavorano sulle parole. Ce n’è uno che ha osato sfidare, nel senso proprio del termine, la cultura ufficiale italiana di metà Novecento, intrisa di ermetismo e di cattiva retorica. Osa prendersela con Ungaretti, con Montale, con Saba, i grandi numi. E’ Giacomo Noventa, e non avverrà mai che una sua poesia compaia nei testi della maturità. Perché la sua sfida non si ferma ai contenuti e alla forma, ma giunge alla lingua:
Mi me son fato ‘na lengua mia
del venezian, de l’italian:
gà sti diritti la poesia,
che vien dai lioghi che regna Pan.
La ghe n’a altri, no’ tuti credo,
se ben par ela se pol morir:
no’ tuto quelo che penso e vedo
vol i me versi spiegar e dir….
E infatti i suoi versi non dicono tutto dei suoi amori, delle sue amicizie, delle barche, dei fiori. E la loro leggerezza arricchisce il lettore, come una fiaba raccontata con voce sommessa e piena di cose buone.