Europa: ricchezza straripante di diversità infinite. Non spazio chiuso recintato da muri, impermeabile a ogni soffio di novità veicolato dai mondi esterni. La sua anima più vera nasconde radici del tutto irriducibili alla ripetizione monotona di un unico motivo replicato senza varianti in mille contesti fra loro interconnessi. La sintesi, invece, è nata dall’incastro di una molteplicità di fattori impastati di accenti multiformi: varietà di terre e di climi, miscuglio di popoli, intreccio mai concluso, e tuttora in corso, di culture, di lingue, di saperi, di modi di vita, di costumi e stili sociali aperti alla sperimentazione inesauribile, proiettatati verso la diffusione contagiosa, allenati all’assimilazione feconda del meglio che può venire dagli apporti altrui. Ma è necessario un serio lavoro di scavo se si vuole conoscere l’identità profonda della tradizione di cui siamo parte, andando al di là della superficie che appare in primo piano, sciolti dai luoghi comuni dell’ovvio che non si lascia scalfire: “solo scavando a fondo si trova il fondamento”. A questa urgenza cruciale, egregiamente risponde il prezioso volume di recente edito da Carlo Ossola per i tipi di Vita e Pensiero: Europa ritrovata. Geografie e miti del vecchio continente.



L’uso del plurale riflette in modo fedele l’impostazione a cui l’autore, italianista affermato e docente al Collège de France, si ispira. Non ci offre un’analisi astrattamente intellettuale della genealogia che sta alla base della civiltà del nostro continente. Al contrario, ci prende per mano e ci conduce, passo dopo passo, in una sorta di pellegrinaggio alle sorgenti, facendoci immergere nel groviglio di rimandi e di significati che si addensano intorno a diciotto “stazioni”: luoghi emblematici visitati uno dopo l’altro, in ognuno dei quali si rivelano dettagli essenziali del tessuto costitutivo del nostro Occidente di matrice europea. 



Gli squarci che si aprono lungo le tappe di questo viaggio a ritroso nel tempo sono infarciti di erudizione. La perlustrazione amorosa dei resti monumentali e delle memorie artistiche sopravvissuti più o meno indenni resistendo all’usura dei secoli si fonde con l’ascolto sommesso delle lezioni lasciate dagli uomini vissuti negli stessi ambienti in cui si addentra il viaggiatore esperto dei giorni nostri, in uno spalancamento di orizzonti veramente eclettico, che dai letterati e dai filosofi di ogni epoca spazia fino ai maestri di religione, ai poeti, ai registi di cinema e ai cantautori del più recente passato. Ma l’ingombro delle citazioni e la catena dei rinvii didascalici rivestono il fascino comunicativo di una scoperta da condividere. Il viaggio di Ossola nell’anima dell’Europa non è nato a tavolino: è il semplice resoconto, illuminato da una cultura sapiente, in grado di “far parlare” cioè che si può vedere con gli occhi, di un viaggio effettivamente compiuto in prima persona dall’autore, nei primi mesi del 2017.



Questa discesa nei meandri dello spirito europeo, piena di curiosità e simpatia, fa emergere fin dall’inizio il suo fulcro centrale: la civiltà di ciò che oggi chiamiamo Europa non è un prodotto di importazione, calato dal nord alla conquista del resto del mondo. Lo si sapeva già bene, e qui ne troviamo continue conferme: l’Europa è la fioritura, medievale e moderna, di un ceppo genetico che ha avuto nel Mediterraneo il suo grembo materno. La griglia primaria che la sorregge è l’eredità di un umanesimo che Roma ha universalizzato nell’ecumene del mondo antico: la Romània, cementata dall’imperialismo della lingua latina, è stata la sua incubatrice primitiva, all’ombra di una costruzione “classica” che ha favorito l’emergere del senso della dignità umana, del valore intangibile della persona, e il bisogno della ricerca tenace del summum bonum, nello spazio della polis concepita come casa comune dei cives ammessi al medesimo piano di diritti e doveri. Dopo una lunga fase di coesistenza difficile e per molti tratti conflittuale, questo impianto del classicismo umanistico si è fuso con gli innesti della fede cristiana, dando vita a un cosmo culturale che ha amalgamato le terre disposte intorno al mare interno del Vecchio Mondo, inglobando fino al V secolo l’area del Nord Africa ed espandendosi in un Oriente rimasto bizantino, siriaco-caldeo e persiano prima di essere arabizzato e più tardi colonizzato dai turchi ottomani nella sua fascia più meridionale.

Non a caso, il viaggio di Ossola si conclude proprio tornando al centro dominante della latinità cristianizzata, dove si cammina “sopra i fastigi dell’antica Roma”, come scrisse Petrarca, e “i tetti dei suoi templi sono il nostro selciato”. Ma il punto di avvio coincide con le terre fiamminghe della devotio moderna e di Erasmo. Poi vengono la Francia delle grandi abbazie benedettine e del gotico. Le Alpi svizzere con i loro gioielli romanici incastonati di decori che parlano tutti i linguaggi del Rinascimento e del Barocco, senza comunque cancellare le tracce di più precoci influssi orientali. Da qui si passa a Treviri, poi in alcuni centri suggestivi delle terre slave, come Pécs, Leopoli (in una Ucraina terra di incroci e rimescolamenti ininterrotti, con i suoi cortili di stile veneziano e le sue propensioni mitteleuropee mescolati agli elementi autoctoni e all’attrazione della potenza russa più a est), quindi Odessa. Esigui bracci di mare separano Istanbul e l’antica Tracia dalle terre turche dove, ugualmente, Roma e il cristianesimo misero robuste radici prima che il vento della storia cambiasse direzione. Con un altro salto ci si incunea nella porzione più meridionale della penisola greca (Mistrà e i suoi stupendi affreschi delle storie della Vergine). E al di là dello Ionio si approda a Otranto, si entra nel cuore dell’antica Magna Grecia. Quindi è la volta di Fréjus in Provenza, con la sua pagoda Hông hiên Tu e la moschea Missiri, oggi abbandonata, ispirata a un modello del Mali. Infine si toccano Liébana e Belém in due spazi diversi della penisola iberica, e Glendalough nella celtica ma tutt’altro che solo periferica terra irlandese, ultima sosta prima dell’approdo conclusivo a quello che fu per secoli l’orgoglioso Caput mundi.

Arrivati al vertice del mosaico disegnato dalla varietà della natura e dagli andirivieni imprevedibili delle vicende degli attori umani, diventa ancora più evidente un punto essenziale: l’anima dell’Europa poggia indiscutibilmente su un “patrimonio di memoria comune”, che va costantemente riguadagnato e reso accessibile in vista di una costruzione che deve continuare nel presente, introducendo gli sforzi attuali per civilizzare la Babele del progresso moderno negli argini sempre a rischio e oggi quanto mai cedevoli di un “universale condiviso”. Ma questo codice unitario di riferimento non è uno schermo piatto di imperativi semplicemente da attuare, pronti per essere applicati in un unico senso incontrovertibile. È un “rugoso manto di secoli”, sedimentatosi per lento accumulo su spinte contrastanti, attraverso le quali realtà molteplici si sono incanalate in un destino comune: scontrandosi aspramente, senza risparmio, ma senza mai arrivare a dilaniarsi e a distruggersi del tutto a vicenda. L’identità culturale del meticciato europeo si fonda sulla varietà e si dispone “a strati”, facendo dialogare tra loro le epoche e i mondi più lontani, che così cessano di essere estranei.

L’identità non è un possesso geloso da brandire come clava contro i nemici che assediano alle porte: piuttosto, è un lascito impegnativo, che ci chiama a renderci degni delle potenzialità enormi consegnateci dalle generazioni che ci hanno preceduto. Un lascito da tenere vivo e da riattualizzare in forme nuove, di fronte al quale non possiamo non “ritrovarci come siamo: indigenti”; che ci chiama a stare innanzitutto con le “mani protese”, nel gesto di chi domanda, accoglie, e vuole reimparare da capo. In cima alla sua costellazione di simboli e alti ideali sta sempre saldo il mito di Ulisse, che ci insegna l’insuperabile “dignità della ricerca”, mai paga dei suoi risultati, insieme a quello di Enea, figura dell'”obbligo di responsabilità”, fondato sulla pietas per i nostri fratelli uomini: a partire dall’affetto riconoscente per i padri che ci hanno dato la vita e ci nutrono con la carne del loro essere maestri, anche sull’abisso di una distanza di secoli.