Davanti alla parola sacrificio ogni uomo avverte una resistenza che fa tutt’uno con la sua voglia di essere felice. Ma la vita è fatta in modo tale che fatiche e dolori siano inevitabili e che a ognuno sia riservata una buona dose di questo materiale grezzo da trasformare in qualcosa di prezioso.

Don Carlo Gnocchi racconta di aver chiesto a un bambino gravemente ferito dalla guerra a chi pensasse mentre soffriva tanto. Il piccolo gli rispose: “A nessuno”. Gli sembrò allora che tutta quella pena e quella di tanti altri come lui andasse perduta come un tesoro dilapidato e da quell’episodio gli venne l’idea di fondare l’opera dei mutilatini.



La famosa frase di Dostoevskij: “La bellezza salverà il mondo” è molto spesso citata, a parere di chi scrive, in modo sentimentale; non coincide cioè con la realtà dei fatti. Le pagine dello scrittore austriaco Hermann Broch, che raccontano gli ultimi giorni di vita di Virgilio e i suoi scrupoli per aver composto nell’Eneide un poema celebrativo della potenza romana e non un’opera di autentica poesia, confutano radicalmente la superficialità dell’uso improprio di frasi celebri.



“Non la bellezza, ma il sacrificio”, afferma Virgilio davanti a Ottaviano e agli altri amici che cercano di distoglierlo dal pensiero di distruggere il poema. Ed è come se l’antico poeta, e con lui l’ebreo Broch, prigioniero nelle carceri naziste in cui comincia il suo romanzo, guardino da lontano la Croce.

In effetti non è necessario ricorrere a un dizionario etimologico per comprendere che il termine sacrificio è composto da due parole chiare nel loro significato: rendere sacro, ovvero offrire a Dio. Interviene perciò la volontà umana per riscattare il peso della fatica di vivere, per offrirla volontariamente a Dio e renderla in questo modo feconda. Ogni atto offerto, anche la gioia, unito per chi è cristiano al mistero di Cristo, acquista grazie alla misteriosa alchimia divina il valore dell’implorazione e della pace.



A questo punto viene spontaneo il ricordo dell’opera manzoniana: in primo luogo l’invito del coro a Ermengarda morente:

Sgombra, o gentil, dall’ansia
mente i terrestri ardori; 
leva all’Eterno un candido
pensier d’offerta, e muori: 
fuor della vita è il termine
del lungo tuo patir.

Ma soprattutto le parole nel Lazzaretto. Quelle di padre Felice nell’accompagnare chi è scampato alla peste: “Benedetto il Signore! Benedetto nella giustizia, benedetto nella misericordia! Benedetto nella morte, benedetto nella salute! benedetto in questa scelta che ha voluto far di noi! Oh! perché l’ha voluto, figliuoli, se non per serbarsi un piccol popolo corretto dall’afflizione e infervorato dalla gratitudine? se non a fine che, sentendo ora più vivamente che la vita è un suo dono, ne facciamo quella stima che merita una cosa data da Lui, l’impieghiamo nell’opere che si possono offrire a Lui? E questa carità, ricoprendo i vostri peccati, raddolcirà anche i vostri dolori”.

E infine il congedo di fra Cristoforo a Renzo e Lucia che lì si sono ritrovati: “Amatevi come compagni di viaggio, con questo pensiero d’avere a lasciarvi e con la speranza di ritrovarvi per sempre. Ringraziate il cielo che v’ha condotti a questo stato, non per mezzo dell’allegrezze turbolente e passeggiere, ma co’ travagli e tra le miserie, per disporvi a una allegrezza raccolta e tranquilla”.

E’ come il compimento del pensiero segreto di Lucia, sul lago liscio e piano increspato lievemente dalla luce della luna e nel silenzio della notte interrotto dal tonfo dei remi che portano lentamente la barca lontano dal paese: “Chi dava a voi tanta giocondità è per tutto; e non turba mai la gioia de’ suoi figli, se non per prepararne una più certa e più grande”.