Caro direttore,
il populismo è democratico? La domanda non sembra azzardata, di fronte all’attuale scenario politico nazionale e internazionale. È indubbio che negli ultimi anni l’accusa stessa di populismo (per alcuni aspetti sinonimo recente della più longeva accusa di “berlusconismo”) sia divenuta una categoria discriminante nel dibattito politico. “Populista” sembra essere, a detta di quelli che lo criticano, la semplificazione esasperata di questioni complicate e la caricatura di esigenze reali per solleticare gli appetiti dei più, suscitando irrazionali e controproducenti istinti contestatori. Va detto, come sottolineano Lorenzo Del Savio e Matteo Mameli in un recente articolo su MicroMega, che spesso tale accusa sottintende una “valorizzazione paternalistica del ruolo delle élite tecnocratiche”. Quasi che la maggioranza dei cittadini viva in una sorta di “falsa coscienza indotta da mancanza di competenze, da pigrizia cognitiva, e da un uso smodato della TV e dei social media, che non permetterebbero alle persone comuni di giudicare da sé del proprio destino politico”. Ogni tentativo di contestazione dal basso verrebbe quindi ricondotto a irrazionalità o pigrizia intellettuale o morale, forse per un timore tocquevilliano della “tirannia della maggioranza”. 



Inutile nascondersi dietro un dito. È certamente vero che ignorare i conflitti fra le élite economiche e i cittadini, alla luce delle crescenti diseguaglianze economiche, ha generato l’esplosione di questa contraddizione e il loro manifestarsi plasticamente in movimenti e partiti post-moderni che vengono ora accusati di “populismo”. 



La domanda si ripropone allora con più forza: si può dire che il populismo sia democratico? 

Non credo lo si possa dire democratico — da qualunque parte politica provenga e qualunque contenuto proponga — se fonda le proprie motivazioni in meccanismi pragmatici e di utilità immediata. Non lo è se comporta il crollo di una tensione ideale e di una continua ricerca ed educazione, se pretende per sé una missione “salvifica” e se riduce la convivenza alla cultura del sospetto. Non lo è se di fronte “all’odioso snobismo elitista e antipopolare” propone una contrapposizione a sua volta, diffondendo la percezione dell’avversario politico come di un nemico, la cui influenza deve essere neutralizzata o perlomeno ridotta al minimo. 



Perché essere democratici, credo, non vuol dire semplicemente “credere nella maggioranza” ma piuttosto significa rifiutarsi di far coincidere interamente il proprio discorso politico con il conflitto e la trincea. Significa rigettare la logica dello schieramento a priori che impedisce un reale confronto con l’altro e credere al contrario che “la Polis” sia veramente la casa di tutti, dove ognuno gioca responsabilmente il proprio impegno personale. 

Forse, con questo approccio al problema, i confini si fanno più sfumati perché “anti-democratico” non è più chi è a favore o meno di chiudere i porti ma piuttosto chi riduce il dibattito politico ai valori antagonistici (e non ai programmi), chi divide sperando di unire alle proprie spalle, chi distrugge per divenire padrone di una casa vuota.