Ci sono molti buoni motivi per ri-raccontare e rileggere uno dei più clamorosi noir del dopoguerra italiano: e non solo perché il tragico rapimento di Milena Sutter, nel 1974 a Genova, oggi verrebbe definito un femminicidio efferato. La vicenda della 14enne studentessa italo-svizzera e di Lorenzo Bozano — che sta tuttora scontando dal 1975 una condanna per omicidio — è presto diventata un caso di laboratorio di un’Italia che solo più tardi avrebbe cominciato a fare consapevolmente i conti con la giustizia mediatica: ormai lontana da verbali di polizia o feuilleton tribunalizi e fatta di inchieste-show in cui magistrati e avvocati, investigatori e giornalisti, vittime e accusati cooperano e competono su un unico palcoscenico.



“Il biondino della spider rossa”: nessuno ha mai più tolto il nickname a Bozano, ma oggi i fact-checkers della Silicon Valley lo bollerebbero come fake. L’assassino di Milena — che non si è mai dichiarato colpevole — non è mai stato biondo e la sua berlinetta-ferrovecchio era una spider solo nel gergo fantasioso di qualche cronista-strillone. E’ stato davvero un rapimento? Nessuno ha mai registrato la telefonata giunta a casa Sutter. E la “bambina” colpita da un destino così terribile era un’adolescente con le molte frequentazioni che non poteva non avere la figlia di un’importante industriale svizzero. E’ stata strangolata? Così hanno detto i medici legali di allora dopo l’esame su un cadavere rimasto molti giorni in mare. Sono stati presi alla lettera dai magistrati e naturalmente anche dai giornalisti. Ma i medici legali di oggi avrebbero fatto di routine anche test tossicologici avanzati. E così via.



E’ tutto questo che ha interessato Maurizio Corte, cronista di lunghissimo corso e oggi docente di giornalismo interculturale e multimedialità all’Università di Verona. Dal lavoro comune con Laura Baccaro — docente di criminologia e psicologia criminale — è nato un originale percorso di ricerca attento a tutti i fruitori. Il biondino della spider rossa. Crimine, giustizia e media (Cacucci Editore, 2018) piacerà ai lettori di reality giallo-noir non meno che agli intenditori di new journalism o agli appassionati di sociologia del linguaggio.

Tutti leggeranno senz’altro tutte le parti e i capitoli di un libro denso, probabilmente definitivo: cui ovviamente manca ancora la verità mai detta di Bozano, ma largamente compensata da una sofisticata analisi psico-crimonologica che gli autori hanno compiuti sulle loro interviste al protagonista. Né manca un inedito capitolo conclusivo su una “storia nella storia”: quella della “testimone Isabelle”, l’amica del cuore di Milena e conoscitrice di tutti i suo primi flirt adolescenziali, veri fili interrotti di ogni investigazione sul caso.



Tutti i lettori potranno muoversi liberamente attraverso le “quattro verità” che il caso Bozano — ormai quasi staccato dal suo protagonista in carne ed ossa — ha lentamente accumulato nel tempo: quella storico-fattuale, quella psicologica, quella mediatica e quella che Corte e Baccaro chiamano “la verità sulla persona Bozano” (soprattutto quella di una gioventù in una famiglia molto difficile). Fra pesi per subacquei (quelli che Bozano commerciava e che hanno trattenuto il cadavere di Milena in un’ansa del golfo di Genova) e carrugi di una città non meno inquieta nei suoi piani alti; fra rituali polizieschi, perizie di luminari e cronache febbrili di giornalisti pistaioli, il volume cerca e trova i suoi approdi. Se sul puzzle tuttora incompleto del caso Bozano sembra allungarsi tuttora “l’ombra di un’altra verità”, gli autori sono invece convinti che Bozano si sia fatto ritagliare addosso i panni del “perfetto colpevole”. Che nella società mediatico-giudiziaria non è molto diverso dall’essere colpevole e basta.