Non credo che, in fin dei conti, sia un buon metodo quello di chiedere reciprocamente agli storici e ai magistrati di farsi carico di una versione condivisa, cioè uniforme della storia repubblicana nel periodo 1992-1995. 

Le contraddizioni che Paolo Mieli (Corriere della Sera, 24 luglio 2018) ha rilevato hanno origine in un presupposto che mi pare comprensibile, ma opinabile: cioè nel ritenere che centrosinistra e centrodestra abbiano dato luogo a politiche pregiudizialmente alternative, cioè incomponibili.



In realtà nel quinquennio c’è stata più continuità che contrapposizione. In questo contesto si inserisce il tentativo di Luciano Violante di rileggere il passato rinunciando a fare dell’antifascismo la chiave di lettura e il displuvio del dopoguerra. Quella cesura non c’era più, anzi è dubbio che ci sia mai stata, se si esclude la determinazione del Pci a tenerla viva. Senza l’usbergo e la retorica infinita sull’antifascismo, ai comunisti si sarebbe chiesto di dare ragione del permanere di alcune plateali incongruenze rispetto alla Costituzione votata e difesa. 



Mi riferisco sinteticamente a due elementi. In primo luogo al finanziamento mensile ponderoso (la quota maggiore di quasi 4mila miliardi che il Pcus, per mano del Kgb, aveva destinato ai comunisti e ai loro compagni di strada). In secondo luogo al tenere in vita, anche se in misura spesso solo inerziale, un apparato paramilitare (che poteva servire da autodifesa davanti ad un colpo di stato anti-comunista, ma anche essere un elemento di sostegno in una fase di conquista del potere, come ha argomentato di recente un collega dell’Università del Molise, Giuseppe Pardini). 

Questo enorme flusso di denaro da Mosca a Botteghe Oscure e questa sorta di “esercito rosso” erano in plateale contraddizione con la Costituzione.



Faccio inoltre presente che nel biennio 1992-1993 fu varata una politica di contrasto a Cosa nostra che non ha avuto precedenti. Mi riferisco ai provvedimenti presi dal governo guidato da Giuliano Amato. Per contrastare la mafia il premier liberal-socialista mandò l’esercito in Sicilia. Non era mai avvenuto prima e non avverrà neanche successivamente che la criminalità organizzata venisse trattata da un presidente del Consiglio e dal suo governo come un problema così grave da richiedere un intervento armato, cioè una mobilitazione di carattere militare. 

Venne arrestato Totò Riina. Fu un successo clamoroso in cui il col. Mario Mori riuscì a vincere le inefficienze e le collusioni che avevano consentito al maggiore esponente dei poteri criminali meglio organizzati di vivere per circa 20 anni tranquillamente, in famiglia, nel centro di Palermo.

Amato avviò una bonifica dei nostri servizi di cui riconobbe i gravi limiti. A lui si devono le nomine di nuovi dirigenti provenienti anche da missioni all’estero, che ebbero il favore del leader comunista Gerardo Chiaromonte.

Mi pare opportuno ricordare anche che all’intellettuale socialista è dovuto l’impegno, anche personale, per far approvare il decreto-legge (proposto dai ministri Claudio Martelli e Vincenzo Scotti) con cui veniva esteso ai boss di Cosa nostra il duro trattamento penitenziario applicato ai brigatisti (come il 41bis).

In realtà, di questa misura particolarmente onerosa per i mafiosi detenuti il parlamento non voleva saperne. Vi fu, per così dire, costretto da un evento tragico: cioè l’eliminazione di Paolo Borsellino e della sua scorta. Borsellino pagò con la vita la sua opposizione alla trattativa tra pezzi dello Stato e i corleonesi. 

Da parte del capo della polizia Vincenzo Parisi e dello stesso Giuliano Amato sono stati formulati dei dubbi sull’origine esclusivamente mafiosa delle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. A sostegno di Cosa nostra c’è stata qualche “manina” internazionale? Mi chiedo se, e quindi come mai, i dubbi manifestati a questo proposito da Amato e Parisi non sembrano avere avuto riscontro nelle indagini della magistratura.

Mettere tutto sullo stesso piano, con un procedimento omologante, non ha molto a che fare con una disciplina assai in crisi come la storiografia. Mieli lo sa bene. Ma egli ha in mano la chiave per spiegare come mai la versione delle cose data dagli storici si dipani in una serie di sfaccettature e in un rapporto di continuità che prescinde dalle leggende metropolitane fiorite sul carattere demoniaco e criminale di Silvio Berlusconi.

A ragione Mieli ricorda, sulla base di un rilievo del direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio, come all’inizio di agosto 1995, e “grazie al fondamentale apporto del centro-sinistra”, dalle due Camere fu approvata la norma del decreto (13 luglio 1994) di Alfredo Biondi (ministro berlusconiano della Giustizia) favorevole ai boss.

Per la verità anche la decisione di mitigare le condizioni dei mafiosi detenuti cioè di derogare all’applicazione del 41bis) fu assunta da un prestigioso ministro della Giustizia del rango di Giovanni Conso, cioè dal governo di centro-sinistra presieduto da Carlo Azeglio Ciampi.

Se posso dare un consiglio a Paolo Mieli, lo inviterei a mettere da parte le categorie di destra e di sinistra per capire gli avvenimenti del 1992-1995. Già allora credo che fossero ormai strumenti di analisi e valori in gran parte inutilizzabili, se non evaporati.