La prima delle tesi che Lutero affisse alla porta della chiesa del castello di Wittenberg recita: “Dominus et Magister noster Iesus Christus dicendo, ‘Poenitentiam agite appropinquavit enim Regnum caelorum’ omnem vitam fidelium poenitentam esse voluit”. Cioè, secondo una delle tante traduzioni: “Il signore e maestro nostro Gesù Cristo dicendo: Fate penitenza ecc. volle che tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza”.
L’espressione proviene dalla traduzione di san Gerolamo di Mt 3:2 e Mt 4:17. La versione Cei del 2008 ha questa traduzione: “Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!”; la versione interconfessionale: “Cambiate vita, perché il regno di Dio è vicino!”. Dunque: pentitevi, convertitevi o cambiate vita?
Quel “poenitentiam agite” è anche il motto che i seguaci di fra Dolcino, il predicatore bruciato sul rogo come eretico nel 1307, pronunciavano al momento della consacrazione, come ripete Salvatore, il frate che con Remigio da Varagine ha un passato dolciniano ne Il nome della Rosa, quando incontra Gugliermo di Baskerville al suo arrivo al convento.
Nell’originale greco al “poenitentiam agite” corrisponde “metanoeite”. In realtà Gerolamo fissò una tradizione che risaliva alle versioni precedenti.
Metanoia è un termine interessante. Meta con l’accusativo serve a mostrare un qualcosa che avviene dopo e vuole sottolineare una trasformazione profonda del nostro modo di vedere la realtà. Metanoéo mette in rilievo il cambiamento di pensiero, in questo senso è diverso da metamélomai che invece sottolinea un sentimento di dispiacere o di rimorso per aver fatto qualcosa.
Il vocabolario biblico ha più di un termine per esprimere il concetto che troviamo nel termine latino. Nella “Settanta” infatti a metanoéo corrisponde l’area semantica di NiHaM. Ritroviamo niham 108 volte nella Bibbia ebraica con una serie di significati che sottolineano la fine di qualcosa che è un male, un peccato, un errore o un lutto.
Nell’Antico testamento ebraico esiste però un altro termine per significare la conversione: shub che indica il ritornare sulla strada giusta, “abbandonare la pista sbagliata per ritrovare quella che conduce all’oasi, alla città, alla vita. Il peccato, d’altronde, era espresso nel lessico biblico con parole ebraiche che indicavano appunto una deviazione o un fallire il bersaglio”. (G. Ravasi).
È il richiamo che fanno sempre i profeti, la conversione come ritorno a Dio che in qualche modo si è abbandonato.
Shub è usato 1.059 volte nel testo ebraico. Indubbiamente c’è qualcosa di simile fra i due concetti ma occorre non confondere i due significati. È come se il concetto più generale di niham vada a completare il concetto più generale di shub.
Shub non è mai tradotto con metanoéo. Piuttosto nella Settanta si attinge a un altro termine greco per tradurre shub: epistrophéin o i derivati di strephein. Il termine viene dalla filosofia greca. Per la tradizione platonica, come per quella stoica, la epistrophé è un ritorno alla purificazione intellettuale. Per gli stoici tuttavia si tratta proprio di un ritorno a sé stessi, ritrovare la propria autenticità.
Foucault in L’ermeneutica del soggetto, citando Hadot, ricorda che per i greci l’episptrophé è “una nozione, e un’esperienza, della conversione che implica il ritorno dell’anima verso la sua sorgente, il movimento in virtù del quale essa fa ritorno alla perfezione dell’essere… Tale epistrophé ha, in un certo senso, come modello quello del risveglio, dell’anamnesis (la reminiscenza) che funge da modalità del risveglio. Si aprono gli occhi, si scorge la luce, e si fa ritorno alla fonte stessa della luce” (p. 193). La metanoia invece segue un altro percorso. È “uno sconvolgimento dello spirito, un radicale rinnovamento, e in un certo senso una sorta di nuovo parto del soggetto a opera del soggetto stesso che ha al centro la morte e resurrezione come esperienza di sé stessi e rinuncia di sé a sé” (ib.).
Potremmo dire che nel Nuovo testamento i vari concetti si cementano nel termine metanoia, dove la sottolineatura è sulla trasformazione del pensiero (noéo) in modo radicale. Un nuovo pensiero, una nuova mente che implica un nuovo modo di agire e di essere, una nuova vita, “cambiate vita” proprio nel senso di trasformare il proprio orizzonte di pensiero. Solo se muti la tua mente puoi trasformare la tua vita, altrimenti puoi avere mille vite o esplorare terre sconosciute, ma non cambia realmente nulla. Si tratta di un cambiamento di sé che è portato da un nuovo sguardo e che chiude con il passato. Saulo, dopo l’incontro sulla via di Damasco, rimane cieco per tre giorni, dopo il battesimo i suoi occhi si illuminano e si alza (Atti 9: 9). Il verbo greco è anastas, lo stesso usato per la risurrezione di Cristo. Non è più Saulo ma è ormai Paolo. Un altro sé trasformato dalle fondamenta richiede una nuova responsabilità. Così scrive Luigi Giussani: “La fisionomia della nostra responsabilità… è una questione di conversione. Se non c’è conversione di te, non verso di me, ma verso Gesù che ti afferra attraverso la mia mano; se la coscienza del nostro discorso non genera conversione in te, non c’è responsabilità. Conversione è qualche cosa che cambia dalla radice”. (Luigi Giussani, “Avvenimento e responsabilità”, Tracce 1 aprile 1998)