Si affollano in questo 2018 anniversari importanti, alcuni ricordati, altri trascurati, altri addirittura semplicemente dimenticati: anno dei tre Papi, dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, eccidio di Lockerbie, fissione dell’atomo, fondazione della Nasa, maggio francese, nascita di Google, nascita di Marx, scoperta della penicillina, addirittura l’anniversario doppio della nascita e della morte di Solženicyn; evocandoli così, in maniera del tutto casuale se non per l’ordine alfabetico, non per tutti forse sapremmo indicare l’anno giusto.
Molto resta nella memoria, ma molto di più scompare; e non è solo una questione di nozioni storiche o di quella cosa ancor più importante che è la memoria storica. È in gioco la stessa questione dell’identità dell’uomo e della possibilità di quell’altra cosa così importante (ma oggi così significativamente ridotta o negata) che è il dialogo, con ciò che gli è legato: testimonianza e condivisione.
Evidentemente, il maggio francese è il 1968, ma quell’anno fu anche molte altre cose: fu l’anno dell’omicidio di Martin Luther King e di Bob Kennedy (con tante speranze che morivano), e fu anche l’anno della Primavera di Praga e della successiva invasione della Cecoslovacchia, che a loro volta furono qualcosa di molto di più di un semplice evento politico (anche in questo caso terribile per chi sperava nei cambiamenti politici); furono anzi l’apparire di quella “politica antipolitica” che è propriamente uno dei lasciti principali del dissenso dell’est europeo, una di quelle cose per cui vale la pena di ricordare ad esempio gli anniversari di Solženicyn (nato cento anni fa, nel 1918, e morto dieci anni fa, nel 2008) che, anche quando parlava di politica rappresentava costantemente la scoperta di uno spazio ben più ampio e universale.
Il 1968 fu dunque il maggio francese e l’invasione della Cecoslovacchia, ma fu anche, a mezzogiorno del 25 agosto dello stesso anno, la manifestazione di otto solitari dissidenti che sulla Piazza Rossa, per pochissimi istanti prima di essere arrestati, riuscirono a inalberare dei cartelli in ceco (“Viva la Cecoslovacchia libera e indipendente”) e in russo (“Per la vostra e la nostra libertà!”): politicamente non rappresentavano nulla, in otto su quell’enorme spazio erano davvero i classici quattro gatti, e inoltre sapevano perfettamente che per quel loro gesto potevano attendersi solo la prigione, eppure sapevano altrettanto perfettamente che quello era l’unico modo per essere se stessi, cioè veramente liberi, come affermava uno dei loro cartelli. Come avrebbe detto più tardi il presidente Havel (che allora era ancora un dissidente) appartenevano a quel tipo di persone – i dissidenti, appunto – che, avendo “un’esperienza di vita nei bastioni del potere disumanizzato”, avevano “l’opportunità e anche il dovere di riflettere su questa esperienza, di testimoniarla, di lasciarla in eredità” a quanti erano stati “abbastanza fortunati da non doverla subire”.
Parlare di anniversari è parlare di questa storia comune che è anche una verità comune (“Per la vostra e la nostra libertà!”), che va riscoperta e condivisa: riscoperta non solo perché la dimentichiamo, ma anche e soprattutto perché non la possediamo e non la creiamo noi, anche se ci definisce fino a farci essere noi stessi e, in questo senso, può e deve essere condivisa, diventa il contenuto dell’unico dialogo autentico.
Dobbiamo ricomprendere che siamo parte di una storia comune, allora come oggi; allora, quando in gioco erano le vicende delle democrazie occidentali e del totalitarismo comunista, come oggi, quando in gioco sono i rapporti tra mille identità di razza, di religione, di genere e di quanto altro si vuole aggiungere. Quando i suoi interlocutori occidentali chiedevano al dissidente Havel che cosa potevano fare per lui e per i suoi compagni di lotta, lui, dopo averli ringraziati per il tanto che potevano fare difendendoli dalle persecuzioni del sistema, sottolineava che quella domanda celava però un’incomprensione di fondo, l’incapacità di capire che “l’oppressione degli uomini di Praga” era “l’oppressione di tutti gli uomini” e che “quello che stava accadendo” all’est europeo era “l’anticipazione di una tale miseria altrove”; così che il problema era cosa si poteva fare insieme. Oggi non è cambiato nulla, nella sostanza; la libertà è indivisibile: o è condivisa o scompare anche dalle società che ne hanno un’esperienza secolare.
Esistono dunque una storia e una libertà comuni, così come esiste una verità comune, anche se non ce ne rendiamo conto e tutto sembra essere assorbito nel mare di una soggettività senza punti fermi.
E qui vale la pena di dare un senso e un contenuto all’anniversario di Solženicyn, ricordandone e condividendone l’esperienza.
Il cuore della “politica antipolitica” di cui parlava il presidente Havel non era una banale demonizzazione della politica o un semplice rifiuto della sua dimensione e delle sue regole, ma un diverso modo di concepirla, non come una “tecnologia del potere e della manipolazione, del dominio cibernetico sugli uomini o come tecnica strumentale, ma come uno dei modi di realizzare una vita sensata, di proteggerla e di servirla”; era, esattamente, come l’avrebbe chiamata lui stesso, “il potere dei senza potere”, il potere che si affermava non come una pura rivendicazione di diritti chiusa nel risentimento e nella protesta, ma come l’affermazione di una responsabilità e di un dovere davanti alla verità.
Havel parlava appunto di una “vita nella verità”, Solženicyn aveva trovato un’altra formulazione: “vivere senza menzogna”, come dice il titolo di un suo famoso saggio del 1974. Di fronte alla tentazione della protesta e della violenza, c’era la netta coscienza, fondata esclusivamente sull’esperienza, che quella via era assolutamente da evitare, perché, come aveva mostrato la storia del regime sovietico, “l’infamia dei metodi si perpetua moltiplicandosi nell’infamia dei risultati”.
A questo punto, però, quella che sembrava una posizione utopica, irrealistica e, fondamentalmente, anche molto rinunciataria si rivelava la più realista ed efficace: il cuore, il contenuto e il metodo dell’ideologia, “il metodo e il risultato infame”, erano nient’altro che la menzogna con la quale l’ideologia aveva continuato a sostituire la realtà, con la quale al posto della realtà si era continuato a mettere le interpretazioni, i progetti, le recriminazioni, la ricerca del nemico, il suo odio e la sua eliminazione. Tutto questo, diceva Solženicyn, non sarebbe mai scomparso da sé, eppure combatterlo poteva essere ed era realmente alla portata di tutti: bastava “il rifiuto di partecipare personalmente alla menzogna”.
E di nuovo, a questo punto, quella che sembrava una posizione irrealistica e impraticabile per l’uomo moderno, spaventato dalle idee assassine e convinto di poterle esorcizzare solo con la domanda scettica su cosa sia la verità, si rivelava invece una posizione di un realismo e di un’efficacia assoluti; a dispetto di quanti hanno letto e continuano a leggere Solženicyn come un moralista corrucciato e fustigatore dei costumi – tanto sovietici quanto occidentali – qui lo scrittore, che nella sua opera letteraria è stato innanzitutto il cantore della realtà non fatta da mano d’uomo e il narratore dell’infinita complessità della storia, non ci offre nessuna lezione: cosa sia la verità, cosa sia la menzogna, “ciascuno lo discerne a modo suo”. C’è qui un’impressionante sfida e il pacificato affidamento alla libertà dell’uomo, ma non c’è nessun relativismo, solo la coscienza che nel cuore dell’uomo esiste qualcosa, non fatto da lui, che, prima con mosse incerte e poi con passo sempre più preciso, finirà per rimettere la realtà al suo posto e lo farà con una forza invincibile, tanto che allora “saremo stupiti nel vedere con quale rapidità la menzogna crollerà impotente e ciò che dev’essere nudo, nudo apparirà al mondo”.
E se fino a questo momento la verità era sempre apparsa il patrimonio geloso di pochi, che la usavano per eliminare chi era fuori dalla linea corretta e per dividere continuamente la società così da poterla meglio dominare, qui questa stessa verità si presenta invece come luogo di unità e incontro, viene affermata esattamente come il frutto di un’esperienza che va condivisa e che, come tale, diventa forza di costruzione comune, a dispetto di diversità e anche di divisioni che la storia può aver creato; non a caso, l’esempio che Solženicyn pone sotto gli occhi di tutti nel suo saggio appena citato, non è tratto dalla storia del suo paese e dalla storia dei suoi martiri, ma proprio dalla storia del paese che nel 1968 il potere sovietico aveva cercato di schiacciare: “quel popolo europeo veramente grande che noi abbiamo tradito e ingannato, il popolo cecoslovacco, non ci ha forse mostrato che un petto inerme può resistere anche ai carri armati, se vi batte un cuore degno?”.