Leggere Gianni Vattimo è quasi sempre un’occasione per comprendere più a fondo la posta in gioco del nostro tempo. E la posta in gioco del tempo è sempre quella del “pensiero”: non per una riduzione intellettualistica del mondo alle nostre idee, o per la presunzione di poter ridurre alle proprie categorie mentali il farsi e il darsi del reale, ma perché proprio quest’ultimo – il reale – accade sempre interpellando e muovendo il nostro pensiero. E il pensiero non è riducibile ad un’analisi astratta (certo, sappiamo bene che a volte viene ridotto a questo: ma è come quando l’amore viene ridotto a sola emozione). Esso piuttosto è il luogo in cui la realtà ci raggiunge e chiede di noi, chiede della nostra “soggettività” per poter manifestare il suo significato “oggettivo”. Senza l’io non c’è oggetto vero; e senza il vero sbiadisce tutta la forza del soggetto.  



Ora, uno dei meriti teorici più interessanti di Vattimo – e lo dico nonostante, anzi proprio perché in diversi casi non sarei d’accordo con le sue posizioni – è quello di aver insistito, sulla scia di Heidegger, nell’affermare una concezione dell'”essere” non come un dato di fatto di tipo “oggettivistico” o positivistico, cioè irrelato, sciolto da ogni rapporto con la nostra comprensione, ma come un “accadere” che ha la dimensione del tempo e della storia, cioè come l’evento di un rapporto. L’essere non è concepibile per lui nell’assolutezza di una sostanza naturale, ma nella contingenza di un’epoca storica.



Mi sembra che stia in questa posizione il senso filosofico di quella svolta ermeneutica, affermatasi a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso a livello mondiale, e che di fatto è risultata vincitrice nel dibattito culturale e politico del nostro tempo. Fino a diventare una sorta di koiné universale, secondo un’espressione usata proprio da Vattimo, uno degli autori che ha contribuito maggiormente – assieme ai suoi maestri Pareyson e Gadamer – a quella svolta e a quella vittoria.   

Vattimo è stato spesso etichettato come “post-moderno”, ma penso che tale etichetta non sia del tutto calzante, perché nel suo percorso riecheggia una domanda che ai cosiddetti post-moderni risulterebbe forse inconcepibile, e cioè: è ancora possibile una liberazione dell’io, un affrancamento dell’umano, una salvezza della persona? Domanda ebraico-cristiana nella sua stessa posizione, che il nichilismo non mette affatto a tacere, ma piuttosto fa riemergere con maggiore, definitiva urgenza. Un’esigenza che Vattimo ha voluto ogni volta ritrovare e ritradurre in altri contesti teorici, spesso programmaticamente anti-cristiani, come quello della morte di Dio e della critica ai valori della modernità operata da Nietzsche, o quello del ribaltamento dell’ideologia e delle gerarchie sociali basate sui rapporti di produzione capitalistici, operato da Marx



Ma in Vattimo questa dislocazione e ri-traduzione della domanda ebraico-cristiana non batte le vie consuete e omologate della “secolarizzazione” (assunta peraltro come un punto di non ritorno), ma sceglie una via inversa: ricondurre al cristianesimo quei territori e quelle istanze che sembravano essersene definitivamente distaccati. Operazione culturale rischiosa, certo, perché almeno esige di sapere cosa sia il cristianesimo, come esperienza più che come tradizione o ideologia. Ma in ogni rischio si nasconde sempre una possibilità. E Vattimo la sua possibilità se la gioca, rischiando. Come testimonia in maniera evidente il suo ultimo libro uscito per La nave di Teseo, intitolato Essere e dintorni (una raccolta di interventi e scritti inediti recenti). 

La proposta teorica che a mio parere ne costituisce il centro propulsore sta nel tentativo di ripensare insieme l’eredità del pensiero heideggeriano e la tradizione cristiana, in maniera tale da individuare proprio nell’unione tra i due qualcosa di nuovo, anzi di inedito, e di particolarmente adeguato per pensare i caratteri e le sfide aperte del nostro presente. 

E questo è tanto più significativo alla luce della recente pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger (a cavallo degli anni Trenta e Quaranta), in cui il pensatore sembra giocare l’ultima, disperata partita dello spirito tedesco, cioè del popolo che avrebbe ricevuto (ma da chi?) il compito di custodire il nascosto mistero dell’essere rispetto alla pianificazione planetaria della tecnica. E che proprio nell’assumersi questo compito rischia l’auto-distruzione.

Ebbene, non è questo Heidegger quello che interessa a Vattimo, anzi, esso si rivela inutilizzabile nelle sue derive misticheggianti e apocalittiche (con le inevitabili collusioni con il nazionalsocialismo e le ambigue prese di distanza dall’ebraismo), e va lasciato cadere. Ma allora bisogna liquidare definitivamente questo pensatore “epocale”, come pure sembrerebbe inevitabile a molti? Non è questa la soluzione di Vattimo. Piuttosto, quello che per lui bisogna ripensare è “l’Heidegger di Essere e tempo, della Fenomenologia della vita religiosa, dell’Origine dell’opera d’arte [in un arco che va dai primi anni Venti a metà degli anni Trenta], insomma l’Heidegger per il quale la storia dell’essere riserva ancora un futuro e l’esistenza è ancora progetto” (p. 398).

Ridare nuova vita alla concezione heideggeriana dell’esistenza umana come progetto, significa intenderla come segnata nel suo essere dalla temporalità e dalla storicità: l’esistenza del nostro Esserci è ciò che non si può mai arrestare a realtà già date una volta per tutte, né rinchiudere in realizzazioni ontiche definitive, ma va sempre lasciato aperto nella sua “impossibilità”: appunto come ciò che non si può mai realizzare (come fatto), ma può solo accadere come evento della verità (come l’evento che è la verità), in cui quest’ultima resta inevitabilmente nascosta o rifiutantesi rispetto alle nostre “immagini” del mondo.

Ebbene, per poter continuare a pensare questa scoperta heideggeriana, salvaguardandola dalla deriva in cui rischia di finire lo stesso pensatore, c’è bisogno per Vattimo di pensarlo alla luce del cristianesimo. Questo non vuol dire semplicemente prendere atto delle origini cristiane del percorso filosofico (e biografico) di Heidegger, nonostante la presenza in lui di una forte vena anti-cristiana (sebbene a Vattimo avrebbe forse giovato tenere maggiormente in conto quest’ultimo fattore). L’operazione è squisitamente teorica, e non parte da una ricostruzione storiografica ma da un certo sentimento post-metafisico del nostro tempo. Parlare di un “Heidegger cristiano” serve all’interprete per “giustificare, legittimare, arricchire la nostra fede cristiana. Parlando al singolare, dico che se non fossi heideggeriano non sarei cristiano e viceversa. Heidegger non è liquidato, per me (soltanto?), perché ne ho bisogno per il mio essere cristiano” (p. 401).

Heidegger dunque fa capire il cristianesimo perché mostra che esso non solo non ha bisogno della metafisica, ma costituisce l’evento di una “liquidazione della metafisica […] radicalmente compiuta” (p. 402). Detto in altri termini, solo Heidegger permetterebbe di compiere la critica nietzschiana nei confronti di un cristianesimo ridotto ad un sistema di valori morali, radicalizzandola come critica della metafisica. In questo egli libererebbe finalmente l’essere come “storia”, come una “pratica” dell’interpretazione del proprio tempo, senz’alcuna pretesa di verità definitiva: come una grazia liberata finalmente dalla legge e una carità liberata definitivamente dalla preoccupazione del vero. Insomma, un'”etica-non-etica” o “an-etica” (p. 386), che non si basa su principi universali e doveri morali, ma sulla pratica dell’interpretazione del mondo come pietas rispetto a ciò che accade nella nostra epoca.

Sia il proto-cristianesimo di Paolo (il primato della carità sulla fede e sulla speranza) che il pensiero post-metafisico di Heidegger non si presentano mai come una “teoria” sui dati, ma come l'”appello ad una prassi diversa” (p. 407). Perciò entrambi sono rivoluzionari, in quanto entrambi costituiscono un'”etica dell’interpretazione” (p. 379). Dunque: non possiamo non dirci heideggeriani, proprio a motivo dell’esito “religioso” e “cristiano” del pensatore tedesco.  E non è un caso che Vattimo legga la celebre affermazione heideggeriana secondo cui “Ormai solo un dio ci può salvare” (nell’intervista postuma allo Spiegel) alla luce della prevalenza attribuita da Paolo alla grazia rispetto alle opere della legge.

Ma per quanto suggestiva possa essere questa lettura, essa pare segnata – come per una legge del contrappasso – da una persistente astrazione. Strano destino per un pensiero che voleva affermare l’essere come storicità dell’evento e fatticità dell’esistenza. Si tratta di un’astrazione che Vattimo condivide probabilmente con lo stesso Heidegger, il quale rintracciava nell’esperienza storica dei primi cristiani (Paolo e Agostino, ma anche Lutero) la scoperta e la comprensione più adeguata del “movimento” della vita umana, intesa come permanente problematicità, inquietudine e apertura all’essere. Ma per far questo doveva staccare quel movimento ontologico della vita – che era pur nato come rapporto con l’Altro, con il “Tu, Domine” – dalla sua origine, cioè dalla sua vocazione. 

O per meglio dire, il Cristo storico non può più essere inteso come una presenza reale, perché in tal modo ricadrebbe nelle oggettivazioni della metafisica. Anch’egli va salvato dalle nostre rappresentazioni, rispetto alle quali deve rimanere come una presenza radicalmente impossibile, per salvare così noi stessi dalle maschere e dai ruoli in cui la metafisica e la politica sempre ci incastrano. Di tutto questo sarebbe figura il cristianesimo, a patto di astrarre però l’evento di Cristo dal “dato” storico di Gesù di Nazareth: il cristianesimo “heideggeriano” agli occhi di Vattimo ha il compito di non fissare e imprigionare l’accadere dell’essere nella gabbia dei dati. Ma è una liberazione in cui forse non si sa più in fondo per cosa vale essere liberi: o meglio, è in questo non saperlo l’unico senso della libertà. 

Ma non sarebbe più interessante verificare se i “dati”, piuttosto che coprire e irrigidire l’accadere dell’essere, non siano una via per tornare a pensarlo e a “goderlo”, come un impossibile che divenga possibile? Come una grazia che divenga esperienza.