Da cinquant’anni a questa parte, il Sessantotto è un campo di battaglia: reduci nostalgici o apologeti entusiasti arroccati a difesa; scettici, delusi e detrattori impegnati a demolir le mura. Proprio perché è passato mezzo secolo, però, forse è giunta l’ora di dichiarare superato il conflitto, e – pure se le controversie storiche non finiscono né devono finire mai – provare a guardare agli eventi di quell’anno in una maniera un po’ più fredda.



Per ottenere questo risultato, possiamo cominciare col riconoscere che il Sessantotto non è un’invasione degli Hyksos, un evento – o insieme di eventi – isolato e traumatico, un’esplosione priva di radici storiche. Al contrario, se ne possono trovare i prodromi per lo meno fin dall’inizio degli anni Sessanta – si legga, tanto per prendere un esempio, la bellissima “Annus Mirabilis” di Philip Larkin, che data la rivoluzione sessuale al 1963 –; mentre i suoi effetti immediati proseguono almeno per tutto il decennio successivo. Ma perfino l’identificazione di un contesto ventennale rischia per certi versi di essere limitativa: il Sessantotto può essere anche inserito all’interno di una storia che dura da più di due secoli – la storia della promessa democratica di radicale e universale autodeterminazione soggettiva. Più in particolare, può essere letto come un moto di ribellione contro l’incapacità della democrazia – intesa, alla Tocqueville, come condizione sociale prima ancora che come regime politico – di mantenere l’ambiziosa promessa che essa stessa ha fatto.



All’indomani della seconda guerra mondiale, in Occidente si afferma, o conferma, la democrazia. Ma è una democrazia limitata: si applica all’interno della sfera pubblica, ma non di quella privata; delega molte decisioni a organismi tecnocratici non elettivi; si fonda su meccanismi di delega molto più che sulla partecipazione attiva dei cittadini. Non è impossibile ipotizzare che nei vent’anni successivi al 1945 la democrazia abbia successo non malgrado sia così limitata, ma proprio perché lo è. Ciò non toglie, tuttavia, che essa si trovi stretta in una contraddizione: per un verso ricava la propria legittimità dalla volontà popolare e promette a ogni individuo ampi spazi di autodeterminazione; per un altro, circonda quella volontà e quegli spazi di molteplici confini. Nel corso degli anni Cinquanta questa contraddizione è tenuta a bada dalla memoria del secondo conflitto mondiale, dalle urgenze della Guerra Fredda, dalla rapida crescita del benessere materiale.



A partire dagli anni Sessanta, però, la contraddizione si fa via via sempre più visibile. Fino a esplodere col Sessantotto. Se la democrazia garantisce a ciascun individuo la possibilità di realizzare appieno il proprio progetto esistenziale, non si capisce per quale ragione l’ampia sfera della vita privata debba essere attraversata da così tante regole e rapporti d’autorità. Lo slogan “il privato è politico”, uno dei più celebri della contestazione sessantottina, sintetizza bene questo desiderio di abbattere la barriera fra pubblico e privato e di utilizzare l’aspirazione alla liberazione dai vincoli quotidiani come strumento di trasformazione politica radicale. E un discorso analogo può farsi per il ruolo sia delle tecnocrazie non elettive, sia dei meccanismi di delega nelle istituzioni elettive.

Avevano ragione, i contestatori, quando denunciavano le contraddizioni della democrazia? In astratto certamente sì. Il problema, però, è che in astratto la democrazia fa delle promesse molto – troppo – ambiziose; e che, se si cerca di fargliele mantenere in concreto, la si spezza. Ma il problema delle alternative concrete il movimento di contestazione del Sessantotto non se lo pone – del resto, non ha fra i suoi slogan più celebri “siate realisti: chiedete l’impossibile”? Privo di una credibile pars construens, tuttavia, non può sopravvivere a lungo. Né quella pars construens può davvero trovarla in una qualche versione dell’ideologia che più ispira i contestatori, il marxismo. Alla fine degli anni Sessanta il marxismo ha infatti perduto gran parte della propria spinta propulsiva, appesantito com’è sia dai fallimenti del socialismo reale, sia dai successi delle democrazie liberali a economia capitalistica. L’impossibilità di passare dalla critica dell’esistente alla prefigurazione di soluzioni politiche realistiche contribuisce a spiegare la natura caotica, incoerente e frammentaria del tessuto ideologico su cui poggia il Sessantotto; l’attivismo che lo caratterizza – il desiderio di azione, anche violenta, disgiunto da un programma coerente dotato di obiettivi chiari –; la natura sovente irrazionale ed emotiva dei comportamenti dei suoi protagonisti.

Il processo storico che trova il suo momento emblematico e culminante nel Sessantotto svolge dunque un’opera efficacissima quando si tratta di ampliare gli spazi dell’autodeterminazione soggettiva corrodendo tutti i vincoli che la limitano – in particolare quelli di natura tradizionale. Ma si rivela impotente quando si tratta di ricomporre la miriade di soggetti autodeterminati all’interno di un disegno politico coerente di trasformazione della società. Non per caso, qualche anno dopo la contestazione arriva il cosiddetto riflusso: la tensione politica si allenta, e il privato prende il sopravvento. Non più quale grimaldello rivoluzionario, com’era nello slogan “il privato è politico”, ma in se stesso: l’espressione delle proprie emozioni, la ricerca della felicità individuale. Nella seconda metà degli anni Settanta, nel mondo anglosassone si comincia a parlare di “decennio dell’Io” e di “cultura del narcisismo”. E nel decennio successivo l’individualismo originato dagli anni Sessanta viene infine incanalato entro argini politici di ben diversa natura rispetto a quelli sognati nel Sessantotto. Si chiude così il cerchio, e si verifica la profezia che Augusto Del Noce aveva formulato nel 1973: la rivoluzione della quale la contestazione studentesca non è che una tappa “è, insieme, perfettamente riuscita e perfettamente fallita. Perfettamente riuscita, perché ha realmente trasformato radicalmente il mondo; completamente fallita rispetto al suo ideale di liberazione universale”. È in questo doppio movimento – successo e fallimento – che dobbiamo cercare le radici della crisi del politico che stiamo attraversando oggi.