La Prima guerra mondiale, al di là dell’immane e «inutile strage», come ebbe a definirla Benedetto XV, ha rappresentato per l’Italia uno snodo decisivo della sua storia: essa ha legato per la prima volta direttamente o indirettamente larga parte della popolazione alla vita del giovane Stato, suscitando nell’immaginario collettivo, una volta terminata, grandi speranze di cambiamento rispetto al regime liberale che aveva relegato le masse a un ruolo subalterno. Questo processo “risorgimentale”, teso a raggiungere una piena unificazione della nazione, trovava compimento nelle conquiste di Trento e Trieste grazie alla grande prova di sé che diede il popolo italiano dopo la disfatta di Caporetto nel condurre l’Italia alla vittoria contro lo storico nemico del Risorgimento.
Così, la fine degli imperialismi e l’affermazione delle potenze democratiche, insieme alle trasformazioni sociali in atto e alle attese di redenzione da una guerra cruenta, segnavano, come ha sottolineato Pombeni, nel giovane Stato unitario «la nascita di un universo nuovo che introduceva una rottura sostanziale in molti paradigmi della vita associata, compresa quella politica». La fine della Grande guerra fu perciò un momento cruciale per le sorti italiane: basterà attendere le elezioni politiche dell’anno successivo perché La Stampa sottolinei come «bisogna risalire al ’76, alla caduta della destra per trovare nella terza Italia un avvenimento interno, paragonabile per importanza e significazione all’attuale».
Le speranze palingenetiche nutrite da più parti affondavano le radici nella “svolta” avvenuta nel 1917 durante il conflitto: la rivoluzione bolscevica, l’ingresso degli Stati Uniti e la disfatta di Caporetto. Tutti questi eventi avranno ripercussioni decisive, in particolare Caporetto segnerà il passaggio di Mussolini al trincerismo, anticamera del movimento dei fasci, all’interno di una prospettiva nazionalista, a cui Gentile conferirà una dignità culturale, come risposta all’italietta liberale.
È a partire da questi eventi che Lineatempo ha riflettuto nel nuovo numero in uscita e che ha come nucleo tematico l’anniversario della fine della Grande guerra e i progetti di unificazione del popolo italiano. In questo contesto s’inserisce anche quello che lo storico Chabod ha definito «il più grande avvenimento della storia italiana del Novecento», la nascita del Partito popolare di don Sturzo, in cui si palesava chiaramente la capacità della fede cristiana di rispondere alle esigenze di riscatto delle masse in senso pienamente democratico.
Nato sotto gli auspici della Rerum novarum il progetto di Sturzo, grazie alle aperture di Benedetto XV, usciva finalmente dai recinti in cui era stato rinchiuso negli anni precedenti, trovandosi inserito all’interno di un quadro internazionale disegnato da Wilson che mirava a promuovere l’ideale pacifista attraverso l’affermazione universale dei principi di democrazia. Sturzo muoveva dall’esigenza di incarnare il Fatto cristiano fino al livello politico in modo aconfessionale e senza quindi generare confusioni tra fede e politica. La fondazione del Partito popolare aveva così l’indubbio merito di inserire pienamente dopo cinquant’anni i cattolici nello Stato, per assumere posizioni di guida e trasformarlo in senso democratico a partire dal principio di sussidiarietà, cardine della Dottrina sociale della Chiesa.
E tuttavia non sarà questa carta a risultare vincente nel complesso dopoguerra, bensì quella fascista. Le ragioni di questo insuccesso di Sturzo sono molteplici e di varia natura, la cui causa ultima credo vada ricercata a partire da quel tornante decisivo per la cultura italiana che fu l’inizio del Novecento, nel momento in cui la Chiesa, finito il tempo delle aperture di Leone XIII, con Pio X inizierà la battaglia antimodernista, ostacolando i tentativi di rinnovamento cattolico da parte di quella nuova generazione cresciuta sotto Leone XIII che cercava una sintesi feconda all’altezza dei tempi tra fede e cultura.
La strategia di Pio X si troverà così funzionale all’emergere delle nuove correnti culturali di matrice idealista proprie di Croce e di Gentile, i quali finiranno per sostenere le posizioni dualiste della Chiesa al fine di escludere dall’ambito filosofico e politico ogni espressione d’ispirazione cattolica. Questo atteggiamento clericale alimentava così il complesso di Croce, secondo cui i cattolici in quanto cattolici a motivo di una fede autoritaria non potevano essere liberali. E lo stesso Gentile, criticando i «compromessi scolastico-modernistici di R. Murri», dichiarava l’impossibilità di «una pretesa conciliante del Murri tra il vecchio dualismo scolastico e le moderne tendenze democratiche».
Il mancato rinnovamento cattolico, come comprese Scoppola, contribuì ad «approfondire il fossato tra la Chiesa e la cultura del tempo […] L’idealismo, nonostante la rumorosa opposizione di correnti irrazionalistiche, ha esercitato per lunghi anni una funzione di sostanziale monopolio nella cultura superiore italiana». Si comprende dunque come, nelle more della crisi del primo dopoguerra davanti alle agitazioni rivoluzionarie dei socialisti sull’onda della Rivoluzione russa, la Chiesa si sentì rassicurata dal fascismo che le appariva come una forza di conservazione contro la modernità, abbandonando il partito di Sturzo e contribuendo a determinare l’impossibilità di orientare la crisi italiana verso uno sbocco democratico.
Bisognerà attendere, come ha scritto Del Noce, il 1936 quando la lettura di Umanesimo integrale di Jacques Maritain scioglierà i legami tra fascismo e Chiesa cattolica reindirizzando il pensiero sociale della Chiesa verso un incontro positivo con la democrazia. Al di là delle tante ragioni contingenti, è qui che deve leggersi a mio avviso la motivazione principale che fece rimandare all’Italia di trent’anni l’appuntamento con la libertà.