l Maggio francese, le manifestazioni di piazza, Woodstock, l’isola di Wright, gli slogan e le foto-simbolo… Il cinquantenario del ’68 ha portato con sé una serie nutrita di riproposizioni del suo immaginario, davanti al quale ciascuno reagisce diversamente: chi con il riaffacciarsi di ricordi personali che fungono da elemento di paragone con ciò che viene proposto; chi – le generazioni più giovani – in base al desiderio più o meno marcato di conoscere un’epoca e degli avvenimenti che appartengono alla storia; chi (come il sottoscritto, che nel ’68 aveva solo un anno e quindi si trovava nella posizione di non attingere ancora ai mass-media) ripercorrendo eventi appresi solo più tardi, e pure talmente prossimi a sé da non fare ancora parte della storia, ma percepiti soprattutto come i prodromi del decennio successivo, quello degli anni di piombo e del radicalizzarsi delle ideologie, prima della loro dissoluzione.
Ma in questo variegato panorama – che già da solo ci persuade della necessità di ripercorrere quegli anni chissà quanto, davvero, “formidabili” – saranno probabilmente capaci solo in pochi di ritrovare elementi caratterizzanti del ’68 che vadano collocati a Est, al di là della “cortina di ferro”. Sicuramente, la maggior parte di costoro riandrà con la memoria ai fatti della “Primavera di Praga” e alla successiva normalizzazione di un tentativo che pure aveva le sue radici in domande e interrogativi non così estranei al desiderio di libertà che all’Ovest si poteva gridare liberamente nelle piazze. Ma questo è davvero ancora poco.
Per questo motivo il terzo incontro del ciclo “Cosa c’entra con noi il ’68”, che accompagna la mostra allestita al Meeting, ci porterà oggi a gettare lo sguardo su “Il ’68 visto da Oriente”, alla ricerca non solo di una documentazione storica su quello che colà avvenne (peraltro necessaria per evitare un indebito “occidentocentrismo” di cui sovente soffriamo), ma anche di un giudizio più vero relativamente a quanto si verificò da noi, in Occidente.
Con l’aiuto di esperti e appassionati conoscitori del tema come Adriano dell’Asta e Annalia Guglielmi, sarà così possibile riconoscere il prevalere – come risposta alla domanda di senso e sul valore dell’individuo – di una visione che, sebbene (o, forse, proprio perché) proveniente da persone duramente provate da decenni di privazione della libertà e di mortificazione massificante del soggetto, scelse la via del rifiuto non solo della violenza, ma anche della demonizzazione dell’avversario, proponendo un orizzonte nuovo, che non lesinava gli sforzi per ricercare – a partire dall’esperienza del reale – una sintesi capace di integrare umanesimo e appartenenza religiosa, così da far emergere tutta la statura irriducibile dell’io, del soggetto umano.
Ma questo è ancora poco: lo sguardo a Oriente ci potrà mostrare come questa riscoperta del soggetto abbia radici inimmaginabili, ma comuni all’esperienza dell’Occidente, che tuttavia farà di tutto per metterle nel dimenticatoio; e, infine, sarà decisamente interessante riascoltare voci – come quella di Vaclav Havel – capaci di giudicare il ’68 occidentale e i suoi risultati ponendo questioni alle quali ancora abbiamo bisogno di rispondere e facendoci riconoscere che, forse, anche da noi e per noi potevano (e possono) esserci opzioni nuove e diverse.