Diventa sempre più difficile comprendere le dinamiche collettive che governano la fortuna di un artista. Appare ancora oggi inspiegabile la travagliata esistenza di Van Gogh rispetto all’enorme fortuna postuma del pittore e dei suoi quadri. In quel caso, anzi, il destino dell’artista era almeno in parte più frequente e meglio razionalmente ricostruibile: tra il disagio mentale e le stentate condizioni di vita, c’era stata un’esistenza terrena che pur non aveva impedito un formidabile successo post mortem per alcuni dei dipinti più belli dell’intero diciannovesimo secolo. Altri contesti e altre vicende producono esempi ancor meno afferrabili. L’arte per l’arte, come ebbe a scrivere il fervente romantico Teofilo Gautier…



La storia del pittore francese Guy de Montlaur (1918-1977) può tutta essere riletta secondo il crinale dei tormentati rapporti che ciascun uomo intesse con meandri e ricordi della propria esistenza: riviste oggi, le tele dell’artista di Biarritz lo mettono al fianco dei grandi del Novecento, nella stessa scia e con la stessa capacità sperimentale dei Mirò, dei Picasso, dei Dalì. Eppure, nella percezione collettiva, non resta di Guy de Montlaur la stessa fortuna che il nostro immaginario ha arbitrariamente scelto di tributare ad altri. Quasi che, in fondo, il reduce della Seconda guerra mondiale, scomparso poi a Garches, con ancora frecce all’arco del proprio estro, avesse scelto, attraverso la sua cifra più appartata, più introspettiva, di crearsi la nicchia perfetta per il proprio silenzio e la propria meditazione. 



Ciò avviene perché Guy de Montlaur arriva alla pittura astratta, percorsa con frenetica e feconda genialità, dopo avere sperimentato, da resistente della Normandia, gli abomini della guerra, in una Francia, peraltro, che dall’onta del collaborazionismo non è del tutto monda, per un certo arco degli anni Quaranta. Gli oltre trent’anni nei quali de Montlaur sopravvive alla fine delle ostilità e alla sconfitta del nazifascismo sono poi anni di riflessione, di ripensamento, di ricerca negli affetti famigliari (la moglie adorata prima di ogni cosa) e nei percorsi di vita. Non anni vissuti con la boria dei vincitori o con le loro illusioni, non anni vissuti, però, con la recrudescenza che il veleno dei vinti ogni tanto ha seminato nella storia d’Europa. 



Non è inconsueto, in quella parte non maggioritaria di manualistica che pur si dedica a de Montlaur, rinvenire accurate segmentazioni della sua opera per periodi: queste operazioni ermeneutiche sono sempre utili se avvicinano al pittore, mentre si rivelano limitanti se del pittore poi ambiscono a dare spaccati troppo ridotti, privi di quell’afflato unitario che invece in de Montlaur si rinviene, eccome. 

All’alba del decennio più lungo per la storia costituzionale e politica del Continente, l’artista ha già all’attivo quadri che rimandano all’atmosfera della movida parigina, ma senza darvi coloriture retoriche, anzi spesso intestandosi di riuscire a rappresentare l’irrappresentabile. La mollezza deformante di “Alcools” o la vena crepuscolare e confidenziale della “Natura morta con libri”, vero scrittoio con pipe, fiammiferi e giradischi, ci portano subito a stretto contatto con le ultime ceneri di una Belle Epoque che è stata più racconto che vissuto, più fuga che incontro con la realtà. 

Le donne di Montlaur guardano in diagonale, sia che aggraziate sorridano sia che inquiete inducano sgomento: la pittura ha il compito di squadernare prospettive dove la vita appare monodimensionale. 

Negli anni Cinquanta, alle geometrie di derivazione cubista si affiancano cromatismi più accesi e una vena astratta sempre più pronunciata. Le orchestre, i tavoli da gioco e le notti che de Montlaur dipinge non hanno quasi più alcun legame con la “raffigurazione”, non cercano il riscontro del mondo reale, eppure lo fanno anche violentemente intuire per piccole forme, per richiami, per giochi di luce, per pennellate ora a mo’ di coltello, ora sussurrate come non se ne vedeva dalla tradizione del puntinismo. 

E, se le opere degli ultimi anni già presentono la fine ed esasperano una continua esplosione di colori nella quale non è l’occhio vigile, ma la coscienza disorientata, a cercare il fine e il contesto, l’opera probabilmente più nota risale al 1969. Estraneo alla temperie culturale di una Contestazione che ha avuto e sta avendo i suoi meriti, ma anche le sue frivolezze, l’artista s’abbandona a un “Autoritratto senza indulgenza”: il suo cipiglio inscurito dai ricordi di guerra e dalle speranze per le quali l’uomo può persino scegliere di essere capace di uccidere è segno di un’elaborazione tormentata, forse pessimistica, perseguitata dal rumore del sangue che scorre.  

Se l’artista francese ha dedicato i suoi anni più prolifici a fare terra bruciata di ogni possibile mitizzazione mondana, con austero distacco dalla réclame e sincera partecipazione al proprio travaglio, a noi spetta il dovere di ricordare. Non lo spettacolo atroce della guerra, non lo scuotimento che scrive nella nostra anima, ma soprattutto il pittore che a queste contraddizioni ha saputo dare la voce più confusa e proprio per questo più veritiera.