Forse per eccessivo pudore o per i dolorosi tagli al programma imposti dalle ore dedicate al latino, non si legge e soprattutto non si traduce una parte molto interessante del IV libro del De rerum natura, l’unica opera, ma grande, di Lucrezio. Nei versi 1037-1287 il poeta dedica un lunga riflessione all’eros e all’amore che, da buon epicureo, tiene solidamente distinti. A questo proposito è utile ricordare che sovente la parola epicureo è usata impropriamente: chi si fa seguace di questa dottrina non è un gaudente, ma un uomo che sa il limite di tutto, di sé e dell’universo, perché tutto è fatto di materia e destinato a perire. Dunque anche nel piacere esiste una tristezza di base e l’unico modo per sfuggirle è una sorta di indifferenza, chiamata atarassia. Essa non è a buon mercato, è invece un esercizio della ragione cui segue un’etica di distacco.
“Certamente chi tiene la testa a posto gode di un piacere più puro dei miseri innamorati. Nel momento del possesso, il loro ardore erra e fluttua incerto: non sanno se godere prima con gli occhi o con le mani, non sanno dove fermarsi. L’oggetto del desiderio lo tengono stretto, lo fanno soffrire, affondano i denti nelle sue labbra che straziano di baci. L’amore spera sempre che l’oggetto che accese quella ardente fiamma sia anche capace di spegnerla: illusione combattuta dalle stesse leggi della natura. E’ il solo caso in cui più possediamo, più il nostro cuore si accende di desideri furiosi. Gli alimenti, le bevande vengono assorbiti, ma di un bel viso o di un bell’incarnato, nulla penetra in noi di cui possiamo godere, se non simulacri, impalpabili simulacri, miserabile speranza che presto il vento porta via. Le mani non saprebbero staccare una particella da quelle membra delicate su cui lasciano errare le incerte carezze. Non sanno quello che desiderano e non possono trovare il rimedio che trionferà sul loro male: a tal punto ignorano la piaga segreta che li rode. Dalla fonte stessa dei piaceri sorge non so quale amarezza, che perfino tra le rose prende l’amante alla gola. Ma non è sempre un’apparenza d’amore a far sospirare la donna, quando in uno stretto corpo a corpo, tiene allacciato il suo amante, inumidendo di baci e succhiando le sue labbra: spesso è sincera e, ricercando amori condivisi, lo eccita a percorrere il cammino dell’amore. L’abitudine si confà all’amore. Non vedi che anche le gocce d’acqua, cadendo su una roccia, col tempo finiscono per perforarla?”.
Una breve spiegazione lessicale e una nota sull’autore.
I simulacri sono “specie di membrane leggere staccate dalla superficie dei corpi che volteggiano in tutte le direzioni nell’aria”, cioè non sono semplici immagini, come quelle riflesse in uno specchio, ma hanno anch’esse consistenza materiale.
San Gerolamo ha tramandato, ma non si è mai stati sicuri dell’autenticità di ciò che egli scrive, che Lucrezio per aver bevuto un filtro amoroso si sarebbe ammalato di quello che oggi si chiama disturbo bipolare e che avrebbe composto il suo poema negli intervalli creativi tra depressione ed euforia. I filtri d’amore non erano inconsueti nell’antichità; quanto alla malattia mentale di Lucrezio, a volte si tende a esagerare la sua portata, come in questo caso, in cui la polemica contro la donna potrebbe essere dovuta a una forte delusione d’amore.
E’ comunque certo che la visione che Lucrezio ha dell’amore fisico tra uomo e donna è ben fondata sulla dottrina materialistica di Epicuro e anche in questo egli contrasta fortemente con la dottrina stoico-aristotelica vigente a Roma negli ambienti colti. Non può che sorprendere la consequenzialità logica delle sue affermazioni, la sua concretezza, il suo realismo; ma sgomenta non poco il suo pessimismo circa una relazione condivisa e feconda, non tanto di figli, quanto di affetti.
In un punto, e solo in esso, sembra concorde una pagina poetica e musicale che appartiene al corpus delle laudi filippine, composte in volgare nell’ambito dell’Oratorio di san Filippo Neri nella Roma del Cinquecento, proprio perché tutto il popolo potesse comprenderle e cantarle:
“Alle cisterne, ai morti stagni, ai laghi
vanno i cuor vaghi pur del sommo bene
ma di tai vene il ber sempre maggiore
fa il nostro ardore”.
Strofa saffica, con rime interne, a conferma che il volgare non era incolto, ma si muoveva sulle orme dei classici. Il desiderio del cuore umano viene descritto e poi, nelle strofe seguenti, indirizzato alla fonte divina dall’acqua zampillante per la vita eterna.