“Le faceva male qualcosa?”
“Mi facevano male le persiane verdi, signor Jouve!”

Questo scambio di battute, solo apparentemente surreale, sottolinea il nucleo di senso di Le persiane verdi, l’ultimo dei romanzi di Georges Simenon ristampato, come da tempo accade, con cadenza semestrale, da Adelphi (trad. di Federica Di Lella e Maria Laura Vanorio).



Che cosa simboleggiano “le persiane verdi” e perché fanno tanto male al protagonista, Maugin, il grande attore di teatro e di cinema?

La vita di Maugin è stata un’avventura, una scalata al successo a partire da umilissime origini: una famiglia poverissima e dissestata in Vandea, una gioventù randagia, mille lavori, la scoperta di avere un talento per la recitazione, di essere un “tipo”, con quella struttura fisica possente, di essere adatto non solo al teatro, ma anche al cinema. E, con il successo, arriva il denaro, arrivano le donne, arrivano i piccoli sfizi e vezzi che il “grande Maugin” può finalmente togliersi per compensare la miseria in cui è cresciuto, come le vestaglie e pantofole su misura che accumula, dono obbligato dei produttori di ogni suo film. Eppure, in questa esistenza da randagio di lusso, c’è sempre una punta di insoddisfazione, un desiderio di fermarsi, di trovare la quiete, per essere “come gli altri”: un bisogno cui la prima delle tre mogli di Maugin, Yvonne Delobel, la grande attrice, ha saputo dare un nome.



Una domenica in cui nessuno dei due doveva lavorare, infatti, “una di quelle domeniche incolori in cui si ha l’impressione di guardare il mondo attraverso una palla di vetro”, la coppia aveva noleggiato un carrozzella di quelle con cui gli innamorati e gli sposini se ne vanno a spasso per il Bois de Boulogne. Yvonne, in uno di quei rari giorni in cui non aveva bevuto, ma, cercava, anzi, di smaltire la sbornia della sera prima, aveva poi fatto fermare la carrozza davanti a una siepe: e oltre le piante, ecco “una casa bianca, spaziosa, immacolata, con le persiane verdi e il tetto di ardesia, circondata da un giardino con prati ben tenuti e vialetti accuratamente rastrellati”: quella è l’immagine perfetta della casa che Yvonne aveva sognato fin dalla sua infanzia. Ma quando il marito le chiede se sia in vendita, la moglie gli risponde che non solo l’aveva già comprata, ma l’aveva anche rivenduta, e questo ben prima di conoscere Maugin. Sì, perché quella casa coincideva in tutto e per tutto con “l’ideale di pace e di serena bellezza” (p. 83) che Yvonne aveva accarezzato sin da bambina, e aveva dunque smosso mari e monti per convincere i proprietari a vendere.



Ma poi, una volta portato nella villa dalle persiane verdi tutto quello che avrebbe dovuto esserci nella dimora dei suoi sogni, Yvonne non aveva resistito: già nella prima settimana, sentiva di essere prossima a impazzire per la disperazione, e dopo pochi giorni era addirittura fuggita via.  

Così è anche Maugin: la sua esistenza, degna di un romanzo picaresco, se non per il successo che riesce a conquistare, lo rende irrequieto, instabile nei suoi appetiti e nelle sue passioni. E, in fondo, era stato davvero sincero Simenon nello smentire di essersi ispirato per questo personaggio a Charlie Chaplin o a W.C. Fields, o a Michel Simon, i grandi attori del suo tempo; sì, perché con la sua inesauribile brama di vita, con il suo accumulare compulsivamente ruoli a teatro e al cinema, mogli, amanti, oggetti poi accantonati e abbandonati, Maugin sembra alludere a Simenon stesso.

Anch’egli, infatti, prima di stabilirsi definitivamente in Svizzera, accumulò case e magioni (Le persiane verdi fu scritto in California, a Carmel by the Sea, nei primi giorni del 1950), spesso lasciandole per viaggi che diventavano in seguito, senza un piano preliminare, degli addii irrevocabili; anch’egli ebbe varie mogli e innumerevoli frequentazioni femminili e avventure; anch’egli, lavoratore instancabile — leggendaria la sua velocità di scrittura — è stato un muscolare, un personaggio largher than life.

Il romanzo ci mostra però “il grande Maugin” nel suo declino: si avvia ai sessant’anni, con il cuore malandato, e una valvola malconcia “come una pera vizza”, gli dice il celebre cardiologo da cui si fa visitare nelle prime pagine. Ma se viene avvertito che “ha il cuore di un settantacinquenne”, è pure vero che alcuni settantacinquenni, se si riguardano, possono sperare di avere ancora molti anni davanti a sé. Per cui Maugin medita di cambiare vita, di darsi una regolata, come si suol dire, di smetterla con gli eccessi, con il superlavoro — anzi, con il lavoro tout court — e di ritirarsi con la giovanissima moglie e la figlioletta nella tranquillità della Riviera. Per Maugin la paternità è qualcosa di non lineare, e del resto nulla è mai stato “lineare” o normale nella sua esistenza: la bambina è figlia di un precedente spasimante della moglie, e Maugin l’ha riconosciuta come sua dopo aver sposato, la madre, impiegata come comparsa a teatro in uno dei suoi spettacoli, che gli aveva confidato di aspettare un bambino da un uomo che l’aveva abbandonata. 

Quel matrimonio, nato su basi di tenerezza, di senso di protezione, ma che diventa, paradossalmente, e che forse è sempre stato, un matrimonio di vero amore e di delicatezze profonde, e quella paternità così anomala, sono una sorta di riparazione, di contraltare, in corrispondenza speculare con una paternità, questa volta sicura, ma mai legalmente sancita: in gioventù Maugin aveva avuto una breve relazione con una ragazza, ma il figlio che ne era nato era stato riconosciuto dal marito che la giovane si era trovata. E ora, Cadot, quel figlio, diventato un giovane uomo lamentoso, è, come una querula nemesi, sempre alle calcagna di Maugin  a pietire aiuto per la moglie malata, per i cinque figli, per un negozio che, rimasto vedovo e risposatosi, vorrebbe aprire.

Come sempre, nei romanzi di Simenon, la fine è nota e noi vediamo i personaggi scivolare verso l’inevitabile conclusione come biglie che rotolano su un piano inclinato, deterministicamente votati alla catastrofe e allo scacco dalle loro indoli, dalle loro passioni, dalle loro abitudini. E se il senatore Thomas Buddenbrook di Mann muore dopo una traumatica seduta dentistica, Maugin è vittima di un incidente banale, persino sciocco, che egli sottovaluta, ma che il lettore avveduto sa riconoscere nella sua fatalità, nonostante Simenon dedichi, inizialmente, a questo avvenimento poco più di un paio di righe.

Simile, per certi versi, alle Campane di Bicêtre anche Le persiane verdi indaga, in modo superbo, la malattia e il declino, con quella secchezza potente in cui Simenon è maestro.