Il turista in visita nella “Cappella della Madonna” (altrimenti detta Borghese o Paolina) – fatta erigere e decorare nella basilica romana di Santa Maria Maggiore da papa Paolo V all’inizio del Seicento perché essa diventasse il “tabernacolo” dell’icona mariana più celebre della città (la Madonna “Salus Populi Romani”) e anche lo spazio destinato a ospitare la sua sepoltura e quella del cardinale nipote Scipione Borghese – alza lo sguardo e osserva una scena di battaglia. Si tratta del vittorioso scontro campale che, alla fine dei tempi, a ranghi completi, impegnerà le forze del Bene contro il Maligno e i suoi seguaci. La principale fonte testuale della scena è Apocalisse 12,1: la visione giovannea della “Donna vestita di Sole”, la quale, scortata dagli apostoli e dal principe delle milizie celesti (san Michele Arcangelo), schiaccia con il piede il “serpente” (Gn 3, 15) e sovrasta la superficie lunare. Degno di nota è che la Luna rappresentata abbia tratti senza dubbio realistici. Perché ciò è degno di nota?



Sino al 1610, quando Galileo Galilei pubblicò a Venezia il Sidereus nuncius, 60 pagine nelle quali lo scienziato annunciò al mondo che il suolo del pianeta, alla luce delle indagini telescopiche condotte, aveva né più né meno le stesse caratteristiche accidentate della Terra, solo pochi dotti contemporanei dubitavano che la superficie della grande sfera madreperlacea che, a sera, prendeva possesso del cielo e vegliava sul tempo del riposo fosse perfettamente liscia. In tal senso, faceva fede Aristotele. Plutarco obiettava, ma l’autorevolezza scientifica dello Stagirita aveva la meglio su quella dell’autore delle Vite parallele e dei Moralia. La Luna faceva parte dell’immensa porzione dell’architettura cosmica esente dai processi di generazione e corruzione propri della realtà terreste; era il “cancello” dei cieli divini, un cancello ovviamente immune da segni di degrado. 



Ecco dunque che il turista della Paolina comprende di trovarsi dinanzi a una sorta di “quarta di copertina”, o a una manchette con un’immagine d’impatto del trattato di Galilei. A questo punto, la guida (cartacea o fisica che sia) del nostro inizia solitamente a decantare l’intrepido pittore Ludovico Cardi detto il “Cigoli”, il quale osò sfidare una tradizione millenaria, introducendo in un eminente luogo sacro come la basilica Liberiana una delle straordinarie novità celesti apportate dall’altrettanto straordinario telescopio costruito dall’amico carissimo dell’artista. Come mai — si chiederà allora il visitatore di Santa Maria Maggiore — Paolo V, a custodia di una tradizione non solo scientifica ma anche iconografica, non fece bloccare il frescante mentre era all’opera (1610-1612) o, a dipinto completato, non gli impose di correggere quanto aveva combinato? 



La questione, in vero, ha interrogato e continua a interrogare gli storici dell’arte e della scienza. Tanto più che il sovrano pontefice, suo nipote porporato e il protesoriere della Camera Apostolica cardinale Giacomo Serra, incaricato di presiedere ai lavori nella Cappella, furono tutt’altro che colti da disappunto dinanzi all’impresa del pittore e non solo gli dettero soddisfazione economica, ma gli favorirono anche la candidatura a Cavaliere di Malta (panni che Cardi non vestì mai in ragione della sua morte, nel 1613). Come stanno, allora, le cose?

Una lunga tradizione esegetica, che risale a Gregorio Magno e a Beda “il Venerabile” e che all’inizio del Seicento era largamente dominante, tendeva ad associare la Luna calpestata dalla Madonna descritta dall’Evangelista in Apocalisse 12,1 alla mutabilità e all’imperfezione del dominio mondano, sul quale si elevava, trionfante, la spiritualità della Chiesa identificata con la Vergine. La Luna costellata di macchie e cavità osservata da Galileo e descritta da quattro incisioni accluse al Sidereus nuncius, ricavate dagli splendidi acquarelli dipinti dallo scienziato mentre scrutava il cielo, non contrastava con il simbolismo riconosciuto al pianeta evocato nella visione di san Giovanni Evangelista e, benché l’intenzione di Cigoli fosse di celebrare le scoperte telescopiche, il suo lavoro manifestava piena sintonia anche con il progetto simbolico al quale doveva conformarsi. 

Detto questo, alcuni studiosi si spingono oltre. La favorevole accoglienza concessa a Galilei nella capitale pontificia nella primavera del 1611 da numerosi porporati, principi, membri della Compagnia di Gesù e dal papa stesso offrirebbe una chiave di lettura dell’altrettanto favorevole accoglienza della rappresentazione della Luna fornita da Cigoli in Santa Maria Maggiore. Qualora Paolo V avesse nutrito qualche dubbio sulle scoperte del matematico pisano e, in particolare, su quelle che riguardavano le caratteristiche della superficie dell’astro, egli avrebbe impedito al pittore di dipingerle in quel modo. L’accettazione di una Luna “imperfetta”, scabra, montagnosa e costellata di crateri sulla cupola del santuario mariano più insigne della città proverebbe, dunque, che il pontefice e suo nipote fossero disposti ad ammettere che almeno parte dei cieli rassomigliasse alla Terra. 

L’opinione degli specialisti non è però unanime. Secondo un’altrettanto autorevole porzione di essi, oltre che per motivi di carattere esegetico, legati al piano simbolico atteso, Paolo V apprezzò la Luna ritratta da Cigoli forse anche come emblema delle nuove scoperte. Ma la sua non sarebbe stata un’adesione ai contenuti scientifici e, tanto meno, al programma culturale galileiano. Pare esagerato supporre — si osserva — che, attraverso l’affresco, la Chiesa cooptò il dato osservativo appena pubblicato e, tacitamente, riconobbe le selenografia galileiana. Sembra più realistico pensare che l’approvazione del papa al lavoro dell’artista sia stata motivata dal desiderio di vedere espresso il senso allegorico della figura (la Luna corrotta di Apocalisse 12, 1, appunto) attraverso un’immagine originale e alla moda, che gratificava il gusto del committente per “il mai visto”. 

Per cercare di fare un po’ più di luce sul significato della soddisfazione di Paolo V e di Scipione Borghese al cospetto della performance di Cigoli, ho voluto sondare il laboratorio ideale di coloro i quali, su mandato dello stesso pontefice, idearono, con l’intero programma iconografico della Cappella Borghese, anche il soggetto del dipinto destinato alla volta del luogo sacro. Come vedremo, l’attrezzatura intellettuale e i rapporti personali dei due progettisti della figurazione riservano spunti di riflessione. 

(1 – continua)