“Mi manca chiunque”, dice Rick Vigorous in La scopa del sistema, il primo importante libro di David Foster Wallace, uscito nel 1987. In quella frase c’è tutto l’uomo che si è impiccato il 12 settembre di dieci anni fa, a 46 anni di età. Era malato di depressione da quando aveva vent’anni, si era curato in modo assiduo, si era anche sposato. Ma si sa che dalla depressione non si esce mai del tutto, il cane nero ti rimane alle costole nella battaglia approfittando di un tuo momento di distrazione. 



Ma non è di depressione che scriveva Wallace, piuttosto di quella malinconia dolce e vibrante che vive chi si sente fatto di mancanza: mi manca chiunque. Non mi manca la mia donna, mia madre, il mio amico: mi manca tutto, mi manca ogni cosa. 

A dieci anni dalla sua morte, il mistero della sua arte è pari soltanto alle lodi sperticate e vertiginose che gli sono state tributate, già quando era ancora in vita, definito uno dei maggiori scrittori americani di sempre. Eppure libri come Infinite Jest (1996) con le sue 1400 pagine, sono una sfida aperta ancora oggi. Celano un mistero che probabilmente ancora nessuno ha carpito.



Come Douglas Coupland, l’autore di due capolavori come Generazione X e Generazione Shampoo, Wallace aveva colto in maniera straordinaria la sperdutezza della sua generazione, abitanti di centri commerciali alienanti, di college dove il massimo delle aspettative era lo sballo, di palestre di fitness e di sport come il tennis, insomma della solitudine immensa che ormai avvolge una nazione, gli Stati Uniti, dove il numero dei suicidi è da decenni in crescita vertiginosa. Per Wallace, forse, la sfida era stata cercare di capire cosa potesse esserci dietro il fallimento conclamato del sogno americano: “La letteratura si occupa di cosa vuol dire essere un cazzo di essere umano” disse in una intervista. Per Wallace e la sua generazione il mondo non era il posto dove viviamo la nostra vita, ma qualcosa che ci impatta addosso e ci lascia doloranti e spaventati. Ma anche ci si ride sopra, cosa che Wallace sapeva fare. 



“La nostra piccolezza, la nostra insignificanza e natura mortale, mia e vostra, la cosa a cui per tutto il tempo cerchiamo di non pensare direttamente, che siamo minuscoli e alla mercé di grandi forze e che il tempo passa incessantemente e che ogni giorno abbiamo perso un altro giorno che non tornerà più e la nostra infanzia è finita e con lei l’adolescenza e il vigore della gioventù e presto anche l’età adulta, che tutto quello che vediamo intorno a noi non fa che decadere e andarsene, tutto se ne va e anche noi, anch’io, da come sono sfrecciati via questi primi quarantadue anni tra non molto me ne andrò anch’io, chi avrebbe mai immaginato che esistesse un modo più veritiero di dire ‘morire’, ‘andarsene’, il solo suono mi fa sentire come mi sento al crepuscolo di una domenica d’inverno…”, scriveva profeticamente pochi anni prima di morire, nel libro pubblicato postumo Il Re pallido.

Wallace ha continuato a sfidare se stesso e il mondo: non è un caso che a farlo decidere di mettersi a scrivere non sia stato un libro di chissà quale scrittore, ma la visione, appena uscito, del film di David Lynch Velluto blu, capolavoro del regista che più di ogni altro ha indagato l’inconscio e la trascendenza della mente umana, creando piani sovrapposti in cui l’esistenza reale è sogno e viceversa.

In occasione del decimo anniversario della sua morte è uscito il libro della ex moglie Karen Green, Il ramo spezzato, che contiene un tale doloroso realismo da restare senza parole. Fu lei infatti a trovarlo impiccato alle travi di casa quel 12 settembre 2008: “Mi angoscia l’idea di averti spezzato le rotule quando ti ho tirato giù. Continuo a sentire quel rumore. Voliamo via dal mondo, no, come angeliche schegge di proiettile, ma allora perché quaggiù è tutto così pesante? Le tue gambe erano eleganti, e tu le piegavi con eleganza, non come un ragazzino che fa finta di avere gli zebedei troppo grossi”.

Ha detto il critico Michiko Kakutani: “Sapeva essere triste, divertente, comico, commovente e assurdo. A volte anche tutto in una volta”. Sopra ogni altra cosa, David Foster Wallace, come dimostrò nel suo magnificente discorso ai neolaureati del Kenyon College tenuto nel 2005 e considerato uno dei più bei discorsi di laurea di sempre, ha cercato di dirci che dobbiamo essere i protagonisti della nostra esistenza, che non dobbiamo mai perdere quel desiderio che si muove costantemente dentro di noi e che il mondo vuole annichilire: “Vent’anni dopo essermi laureato, sono riuscito lentamente a capire che lo stereotipo dell’educazione umanistica che vi ‘insegna a pensare’ è in realtà solo un modo sintetico per esprimere un’idea molto più significativa e profonda: ‘imparare a pensare’ vuol dire in effetti imparare a esercitare un qualche controllo su come e cosa pensi. Significa anche essere abbastanza consapevoli e coscienti per scegliere a cosa prestare attenzione e come dare un senso all’esperienza. Perché, se non potrete esercitare questo tipo di scelta nella vostra vita adulta, allora sarete veramente nei guai. Pensate al vecchio luogo comune della ‘mente come ottimo servitore, ma pessimo padrone’. Questo, come molti luoghi comuni, così inadeguati e poco entusiasmanti in superficie, in realtà esprime una grande e terribile verità. Non a caso gli adulti che si suicidano con armi da fuoco quasi sempre si sparano alla testa. Sparano al loro pessimo padrone. E la verità è che molte di queste persone sono in effetti già morte molto prima di aver premuto il grilletto”. 

Aggiungendo: “E vi dico anche quale dovrebbe essere l’obiettivo reale su cui si dovrebbe fondare la vostra educazione umanistica: come evitare di passare la vostra confortevole, prosperosa, rispettabile vita adulta, come dei morti, incoscienti, schiavi delle vostre teste e della vostra solita configurazione di base per cui ‘in ogni momento’ siete unicamente, completamente, imperiosamente soli”. 

Scegliere, scegliere ogni giorno chi essere: “La libertà del tipo più importante richiede attenzione e consapevolezza e disciplina, e di essere veramente capaci di interessarsi ad altre persone e sacrificarsi per loro più e più volte ogni giorno in una miriade di modi insignificanti e poco attraenti. Questa è la vera libertà. Questo è essere istruiti e capire come si pensa. L’alternativa è l’incoscienza, la configurazione di base, la corsa al successo, il senso costante e lancinante di aver avuto, e perso, qualcosa di infinito”.