Nel 1974, in occasione della sconfitta al referendum sul divorzio, il mondo cattolico e la Democrazia cristiana presero formalmente atto che la società italiana era ormai distante anni luce dal magistero della Chiesa e dai suoi insegnamenti. Il referendum portò in dote una ridda di profonde lacerazioni interne al cattolicesimo nostrano – tra chi seguì il papa nella battaglia abrogativa e chi invece gli voltò le spalle – che a leggere certi velenosi interventi ancora oggi sembrano aver lasciato strascichi evidenti.
Quelle lacerazioni, tuttavia, non nascevano dal nulla e non nascevano allora, ma erano affiorate già in occasione del dibattito sulla famiglia svoltosi in Assemblea costituente, ricco di colpi di scena per nulla preventivabili.
La discussione sul tema del matrimonio iniziò nella sottocommissione il 6 novembre 1946 su una formula parzialmente concordata dalle parti, che diceva:
“Il matrimonio è basato sul principio dell’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi ai quali spettano il diritto e il dovere di alimentare, istruire ed educare la prole. Lo Stato sorveglia ed occorrendo integra l’adempimento di tale compito. La legge regola la condizione giuridica dei coniugi allo scopo di garantire l’indissolubilità (stabilità) del vincolo coniugale e l’unità di indirizzo della vita familiare. Lo Stato provvederà ad un’adeguata protezione morale e materiale della maternità, dell’infanzia e della gioventù, istituendo gli organismi necessari a tale scopo”.
Su tale testo iniziò un’animata e lunga discussione tra le parti politiche. Secondo i democristiani, per bocca dell’on. Aldo Moro, lo Stato avrebbe dovuto farsi carico della difesa della famiglia al fine di garantire l’assolvimento della sua alta missione, facilitandone, anche con provvedimenti di carattere assistenziale, il compito “di assicurare la saldezza morale e la prosperità del popolo italiano”. I socialisti, invece, si dichiararono contrari a che nel testo costituzionale si parlasse di “società naturale” o di “diritto naturale”, mentre auspicavano che fossero inserite nella Costituzione norme precise e concrete a difesa dell’istituto familiare e non invece dichiarazioni di principio di matrice confessionale. Più cauto fu l’atteggiamento dei comunisti, sempre attenti a non rompere il precario accordo costituente implicitamente concordato con la controparte cattolica.
Per il momento, i rappresentanti comunisti si riservarono di studiare una formula che potesse esprimere in modo più completo e più chiaro le esigenze di tutela della famiglia tanto care alla controparte cattolica. Ciò su cui il disaccordo sembrava insanabile era il punto relativo alla indissolubilità del matrimonio, che i comunisti – come tutto il fronte laico di sinistra e di destra – erano contrari ad inserire nella Costituzione. L’esito della votazione sulla proposta fu che il primo comma raggiunse la maggioranza dei voti, mentre sugli altri la contrapposizione fu insanabile.
La Santa Sede, da par suo, continuò a far pressioni sostenendo la necessità di inserire il termine “indissolubilità” e non “stabilità”, perché questa era una parola che poteva prestarsi a molteplici interpretazioni. Mons. Dell’Acqua consigliò espressamente i democristiani affinché “tenessero duro e dessero battaglia a fondo, poiché si tratta di uno dei principi più importanti”, e provarono a smuovere le coscienze dei deputati comunisti, come quella dell’on. Nilde Iotti. Come riporta Giovanni Sale, un prelato della Segreteria di Stato scrisse infatti a padre Giacomo Martegani, direttore de La Civiltà Cattolica: “mi è stato detto che la Jotti proviene da una famiglia buona e cattolica e che si è laureata presso l’Università cattolica del S. Cuore. Da qualcuno si pensa, perciò, che si possa in qualche modo influire su di lei: speriamolo!”. Fu una speranza vana, come vedremo.
Nella seduta della sottocommissione del 13 novembre le cose andarono come previsto: i laici dei due schieramenti proposero di sostituire la parola “indissolubilità”, come risultava nella formula in discussione, con la parola “stabilità”. I deputati democristiani rilevarono come il termine proposto dalla controparte fosse privo di vero significato giuridico e sottolinearono l’importanza morale e l’efficacia giuridica del termine da essi difeso, aggiungendo che la presenza nella Costituzione di un articolo che sancisse l’indissolubilità del vincolo coniugale avrebbe certamente avuto il ruolo di frenare l’eventuale nascita di tendenze divorzistiche nella società, alle quali gli stessi comunisti erano contrari. In quella stessa occasione Dossetti ebbe a dire: “La indissolubilità del matrimonio si giustifica con la necessità della ricostruzione morale, che è il fondamento della ricostruzione sociale, economica e politica, per realizzare la quale la Costituente è riunita”. Era dunque una questione di fondo per i cattolici.
I numeri – favorevoli ai cattolici – lasciavano presagire che in sede di Assemblea plenaria si giungesse a una soluzione ad essi favorevole, con l’inserimento nella Carta del termine “indissolubile”. Così non fu, invece, e per motivi tutti interni alla galassia democristiana, che come detto anticiparono quelle spaccature nel mondo cattolico che poi saranno palesi e manifeste in occasione del referendum sul divorzio del 1974. In Assemblea, infatti, le forze di sinistra e quelle laiche furono decise a far fronte comune contro la proposta democristiana sul matrimonio e presentarono per questo numerosi emendamenti. Uno di questi – quello che poi fu approvato – a firma del socialista Grilli, chiedeva la soppressione dalla fine del comma 1 dell’art. 23 della parola “indissolubile”. Venne presentata da laici e socialisti la richiesta di votazione a scrutinio segreto, e con questo sistema le operazioni di voto iniziarono dopo la mezzanotte. All’una e cinque del 24 aprile terminarono: la proposta Grilli fu approvata con 194 voti contro 191; quindi soltanto con lo scarto di tre voti.
Cos’era successo? La direzione centrale della Dc, come pure la Santa Sede, ritennero responsabili della sconfitta i 36 deputati democristiani assenti dalla seduta del 23 aprile, molti per motivi non giustificati. Considerando che la proposta Grilli passò per soli tre voti, si capisce bene quanto determinanti siano state queste assenze. Probabilmente, molti deputati all’interno della stessa Dc non erano affatto convinti della necessità di difendere l’indissolubilità del matrimonio inserendo tale principio nella Carta costituzionale, e anziché ingaggiare una battaglia col proprio partito dagli esiti incerti preferirono più prudentemente non presentarsi al momento del voto. Erano segnali striscianti di una frattura ben più sostanziale. Ed erano anche segnali di come questi principi non erano più riconosciuti validi nell’esperienza ma si erano ridotti a “vuoti valori”, e come tali destinati ad un’ingloriosa e quanto mai esiziale estinzione.