Uno dei temi che permea di più la ricerca filosofica contemporanea è quello della filogenesi, la nascita della specie umana. Questo anche per le diverse analogie che il tema ha con quello dell’ontogenesi, il sorgere del singolo individuo. Dell’argomento si è parlato molto, con diversi ospiti, nell’ultimo Meeting di Rimini, dove diversi incontri sono stati dedicati alla esplorazioni spaziali e alla ricerca della vita extraterrestre. Uno dei relatori è stato Costantino Esposito, ordinario di storia della filosofia nell’Università di Bari. Con lui siamo tornati sull’argomento. “Secondo me la cosa interessante — dice Esposito al Sussidiario — è proprio lo scoprire una strana ma interessantissima analogia tra la formazione della vita a livello cosmico, con il connesso problema della possibile presenza diffusa della vita nell’universo, e l’emergere di quella modalità tutta speciale della vita che è la nostra vita cosciente”. 



Perché, professore?

Così come gli scienziati dicono che vi è una sorta di salto non ancora sperimentalmente comprensibile, nel passaggio dal non vivente al vivente, per esempio da alcune basi azotate e amminoacidi all’instaurarsi della vita vera e propria, così io proponevo questa analogia nel passaggio da quelli che sono i meccanismi biochimici del nostro cervello al problema della coscienza. È chiaro che ogni qualvolta nell’universo c’è vita, ci sono basi azotate e amminoacidi (o eventualmente altre macromolecole complesse), ma questo non spiega ancora il passaggio dalla non-vita alla vita; e così, ogniqualvolta noi abbiamo degli atti coscienti, dotati di intenzionalità, si attivano determinati meccanismi cerebrali. Però questo non spiega ancora il passaggio da quello che David Chalmers chiamerebbe uno zombie all’essere umano. Lo zombie ha la stessa struttura biochimica, biologica dell’essere umano, però senza coscienza. La domanda che mi ponevo è se la non-esplicabilità sperimentale — finora — del salto dalla non-vita alla vita o dalla vita alla vita cosciente sia dovuta ai limiti delle conoscenze degli scienziati, siano essi astrofisici o scienziati cognitivisti, colmabili in un futuro più o meno prossimo con una spiegazione esauriente, oppure se questo salto non indichi forse che qui accade qualcosa di qualitativamente diverso. 



E in merito al rapporto tra filogenesi e ontogenesi?

Ci sono alcuni biologi e antropologi che dicono che noi siamo “specifici” ma non siamo “speciali”; cioè possiamo spiegare la complessità stupefacente della nostra esistenza come individui con l’appartenenza alla specie, ma questo non vuol dire ancora che siamo speciali, ossia che in noi, e in ciascuno di noi, ci sia qualcosa di irriducibile alla dimensione della specie. Ma tutte queste sono a volte più ipotesi teoriche che evidenze sperimentali, oppure dati sperimentali assunti come teorie filosofiche generali.



Al Meeting è stata riservata un’attenzione particolare al fatto che l’ipotesi della vita extraterrestre illumini la ricerca astronomica non più come una ricerca del nostro futuro, ma come una ricerca delle nostre origini, dell’origine della nostra vita nello spazio. Viene in mente l’arché greco. 

Dal mio punto di vista, quello che possiamo giustamente chiamare ricerca del principio, dell’arché, ricerca eminentemente filosofica, ha una sua importanza anche in questo genere di ipotesi scientifiche. Ciò che mi colpisce di più è questo: cosa vuol dire di fatto che c’è una vita ancestrale diffusa nell’Universo? Potremmo limitarci a prendere coscienza dell’esistenza di basi azotate e amminoacidi, ma a livello di ipotesi estreme, ciò che più interessa è che vi possa essere una vita dotata di logos, ovvero di ricerca del senso, di coscienza e di capacità comunicative. Questo è ciò che di più interessante sta sotteso alla ricerca scientifica e filosofica insieme: la scoperta che il nostro logos fa di un logos, per capire se c’è una sensatezza nel cosmo, se il caos in qualche maniera porti dentro di sé la possibilità di un’unificazione sensata. È insopprimibile questa ricerca, perché nasce da quel desiderio che noi esseri “logici” abbiamo di trovare il logos, il senso. Penso che questa sia un’ipotesi “principiale” che permette anche alla ricerca scientifica di andare avanti. 

Assomiglia molto a un fardello, questo insopprimibile desiderio. 

Assecondarlo è sicuramente faticoso. Ma è una fatica bella, perché per liberarsi da questo fardello bisognerebbe smettere di ricercare. Ma così si rinuncerebbe all’esercizio e allo svolgimento della scienza. Paradossalmente, anche per uno scienziato che per convinzione personale optasse per l’insensatezza, la non-finalità, la casualità e caoticità dell’universo, come fece per esempio Jacques Monod, l’accanita tendenza a cogliere in qualche maniera le leggi di questo cosmo insensato, è la testimonianza di una ricerca di senso. Il fatto stesso che la ricerca continui attesta il sopravvivere della ricerca di logos

Prendiamo la questione del finalismo dell’Universo: cercare finalismo nella scienza oggi è considerato un errore. Lo è davvero? 

Bisogna contestualizzare. La scienza meccanica moderna, da Cartesio a Galileo, da Newton a Kant, è una scienza che indaga il mondo a prescindere dal fatto che esso possa essere finalizzato a qualcosa di più di quello che è. Quello che importa è scoprire e determinare le leggi dei corpi in movimento, avere il controllo del meccanismo. E quando Cartesio o Spinoza scrivono contro le cause finali vogliono dire che noi dobbiamo guardare il mondo come una serie di rapporti quantificabili, e che tutto il resto fa solo parte della percezione “soggettiva” del mondo, intendendo non soltanto le qualità secondarie, ma anche un eventuale scopo del mondo, di cui lo scienziato può e deve fare a meno quando spiega il mondo. Certo, non tutti la pensano così: Leibniz, per esempio, pensa una possibile unificazione di cause meccaniche e cause finali. Kant poi è un pensatore particolare: per Kant la teleologia, il finalismo, dev’essere ammesso, ma non come una causa della “determinazione” della natura, ma solo come un giudizio di “riflessione” su di essa. 

Può soffermarsi su questo aspetto?

Kant è estremamente interessante perché sostiene che la ragione umana non può fare a meno di pensare finalisticamente né può limitarsi a pensare il mondo come una macchina; ma questo non vuol dire che esistano in realtà delle cause finali (o meglio noi non possiamo dire né che esistono né che non esistono, perché vanno al di là delle nostre misure spazio-temporali). Questo perché la ragione pensa anche la libertà, la moralità e dunque i fini nel mondo. La ragione ha un uso estremo, regolativo, e questo uso non dice come è fatto deterministicamente il mondo ma dice soltanto che la ragione non può tollerare di pensare le cause meccaniche senza che — asintoticamente, in una prospettiva all’infinito o indefinita — questo si possa accordare con la libertà. Per questo nella Critica del Giudizio, Kant deve postulare una “etico-teologia”, ovvero deve ammettere ipoteticamente (senza mai poterla dimostrare) l’esistenza di un Dio che ci permetta di pensare una possibile unificazione tra cause meccaniche e cause finali. Ma anche per Kant quando facciamo scienza dobbiamo espellere, non tener conto delle seconde. 

E così torniamo al rifiuto del finalismo.

L’altro grande passaggio in cui il finalismo è stato storicamente rifiutato è la teoria dell’evoluzione a partire da Darwin. Ideologicamente a tale teoria è stata spesso opposta dialetticamente quella dell’Intelligent Design, ma non è questo il tema quando parliamo, come prima, della possibilità di trovare un logos nel mondo. Quella è una battaglia tra il considerare la filogenesi in base a un fissismo delle specie e considerare queste ultime come soggette a evoluzione storica. Negli ultimi decenni si è affermata anche la tesi — che non è ancora però un reperto sperimentale — che la stessa coscienza sia un affinamento culturale dell’evoluzione. Ma anche qualora volessimo prendere l’evoluzione come orizzonte ultimo di esplicabilità del mondo, la storia evolutiva in fondo dice che “casualmente” succede qualcosa che modifica la specie. Ora, questa casualità è tale da indurre una deviazione dall’ordine precostituito o precedente; ma questa deviazione in qualche maniera comunica che c’è una certa intenzionalità, una certa tendenza al logos nella natura, anche se ciò ciò non avviene per cause finali estrinseche. Anche solo intrinsecamente, una certa casualità diventa l’origine di un nuovo corso ed è come se attirasse o portasse ad andare in una certa direzione. Non si tratta certo di cause finali, ma in una certa maniera non si può non notare una traccia di intenzionalità anche dietro la causalità meccanica o l’evoluzione biologica. Ai miei occhi — di profano, beninteso — l’evoluzione non è insomma la condanna a morte di ogni intenzionalità logica nella natura. 

(Meriem Behiri e Alessandro Menghini)