Or poserai per sempre,
Stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,
Ch’eterno io mi credei. Perì. Ben sento,
In noi di cari inganni,
Non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
Palpitasti. Non val cosa nessuna
I moti tuoi, né di sospiri è degna
La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
L’ultima volta. Al gener nostro il fato
Non donò che il morire. Omai disprezza
Te, la natura, il brutto
Poter che, ascoso, a comun danno impera,
E l’infinita vanità del tutto.  



La lirica di Leopardi, appartenente al ciclo di Aspasia, pare segnare un punto di non ritorno nella produzione dell’autore. La disillusione dell’amore per Fanny Targioni Tozzetti è resa non solo con parole scarne, con un fraseggio spezzato, con una punteggiatura frequente, con l’assenza di ogni elemento della natura. Tutto è perduto: sogno, illusione, speranza. Così vasto l’investimento affettivo da provocare una crisi totale da coinvolgere anche la parola poetica e soprattutto una visione del mondo che non cede alla disperazione, ma la muta in giudizio, in disprezzo, in una stoica accettazione del nulla. Sappiamo che non è così: Leopardi ritroverà il suo canto, guardando il fiorire della ginestra sul Vesuvio e rivolgendosi dal letto di morte alla luna, compagna assidua delle sue riflessioni.



Ben diverso in Puccini il canto di Cavaradossi, su testo di Giacosa. Il pittore sta per essere ucciso per la gelosia e il tradimento del perfido Scarpia; vede la fine della sua vita, del suo amore per Tosca e ritorna col pensiero agli incontri furtivi con lei, tra la luce delle stelle e i profumi della terra. Lui sì si dispera, perché troppo è il divario tra le morte imminente e l’amore per la vita che si precisa nel rimpianto per il sogno che si infrange.

E lucevan le stelle,
Ed olezzava la terra
Stridea l’uscio dell’orto
E un passo sfiorava la rena.
Entrava ella fragrante,
Mi cadea fra la braccia.
O dolci baci, o languide carezze,
Mentr’io fremente le belle forme disciogliea dai veli!
Svanì per sempre il sogno mio d’amore.
L’ora è fuggita, e muoio disperato!
E muoio disperato! E non ho amato mai tanto la vita! 



Non sappiamo in dettaglio l’origine di un canto di Claudio Chieffo, ma le parole sono avvicinabili agli altri due testi, con le proporzioni dovute ai molti anni che ne separano la composizione e al diverso genere espressivo.

Rimane talvolta solo il silenzio,
rimane soltanto un grande vuoto
e non puoi fare altro che pregare,
che chiedere a Lui che ti ha dato tutto
la forza di continuare.

Stanco mio cor. Come sempre è Leopardi a trovare il tono più universale. Grigio o livido che sia, il colore della stanchezza rende opaca ma non per questo meno precisa la percezione delle cose tutte e del vuoto che le circonda. Ma un lampo di luce, anche non avvertito, impedisce il buio, sia esso la fermezza della denuncia, la disperata affermazione dell’amore, o la preghiera del povero.

A settembre anche la natura è stanca: ha portato per mesi il rigoglio estivo, talora l’arsura della siccità e si prepara al riposo dell’inverno. L’incanto dei colori autunnali, se da un lato parla della fine, alla vista è un bagliore di luce. Così, nella natura e nell’uomo, c’è un intreccio pieno di suggestioni anche nei momenti di passaggio e di crisi.