La questione palestinese sembra essersi eclissata dai monitor degli opinionisti internazionali. Ce n’è qualche ragione pratica (l’essersi riprodotti, nella stessa macroregione geografica, conflitti di portata ancora superiore e con ricadute visibili più immediate), ma manca in questo oblio qualsivoglia ragione giustificativa strategica. La questione palestinese è ancora oggi legata a filo doppio al tema della sicurezza internazionale: lo è all’interno dei confini israeliani, ma anche fuori da quei confini. L’islamismo politico radicale ha buon gioco a strattonare il vessillo di Gaza quando vuole creare consenso nelle proprie aree di originario radicamento e proporsi come nuova istanza panaraba dei giorni nostri. Contemporaneamente, il declino di visibilità del problema in Israele rende sempre più ignorate e mimetiche le posizioni governative, che non stanno dimostrando di avere specificamente a cuore la pacificazione, ancora una volta dentro e fuori i propri confini. 



La soluzione diplomatica preferenziale degli ultimi decenni (quella dei “due Stati”) si è rivelata nei fatti inservibile: il riconoscimento internazionale della statualità per la regione palestinese è arrivato tardi e incompleto, oltre che non assistito dalla debita cooperazione nell’area. Non solo: il richiamo ai “due Stati” per “due popoli” è sempre più annacquato e proclamativo. Quali sono questi Stati? Come se ne tracciano i confini? E, una volta tracciati o tracciabili, saranno effettivamente rimosse le condizioni che hanno da così tanto tempo reso la regione una polveriera, oltre che un corridoio preferenziale per le più varie forme di propaganda politica? 



Il grande assente di questo dibattito, come ricordato posto già ai margini dell’agone politico internazionale, sembra essere il Partito laburista israeliano. Nell’effettiva storia interna e statutaria di quel partito il tema della pacificazione non era stato da poco, dando luogo per altro verso a una vivace corrente federalista democratica. I laburisti avevano anzi rappresentato per almeno tre decenni (dalla fine degli anni Sessanta alla metà degli anni Novanta) il volto riformatore dell’élite israeliana. Attenti a politiche prudentemente redistributive, negli intendimenti non ostili alle rivendicazioni palestinesi, capaci di produrre una serie di riforme che nell’ordinamento israeliano si erano tradotte non in una costituzione formale, ma in una pluralità di “leggi generali” e “leggi fondamentali” che certamente svolgevano la funzione di costituzione in senso materiale. 



La socialdemocrazia ebraica aveva dimostrato di volersi misurare col lascito remoto della propria tradizione, anche dal punto di vista religioso, ma respingendo le interpretazioni ultra-ortodosse che sono ora ritornate in auge in molti quartieri di Gerusalemme e che orientano spesso le decisioni politiche persino nei livelli decentrati. L’ascesa di quell’ortodossia, ancora oggi minoritaria ma costituitasi in minoranza pertinace che peraltro poco si dedica al dialogo interreligioso, sembra avere ricalcato le orme della caduta dei laburisti. A lungo forza politica egemone nel Paese, sovente alleata con l’ala marxista della sinistra nazionale, il partito laburista dagli anni Duemila ad oggi ha registrato perdite di consenso a macchia d’olio, intaccando la stessa memoria collettiva di alcuni suoi storici leader di orientamento progressista (Golda Meir, Shimon Peres, Yitzhak Rabin). 

Questa emorragia elettorale non ha impedito ai deputati eletti, mano a mano in minor numero, di allearsi ora con Likud, il partito conservatore, ora con i centristi di Kadima, che sono stati assolutamente cauti o persino inoperosi sui temi dei diritti civili, politici e sociali. 

Adesso il partito sembra star tentando di ricostruire la propria narrazione e la propria identità partendo dagli ambiti in cui il suo radicamento non era del tutto venuto meno: l’accademia, il sindacato, la rappresentanza negli organismi internazionali (ivi compresi gli alleati del Partito del socialismo europeo e dell’Internazionale socialista). 

Israele sperimenta insomma i travagli di tutte le sinistre che abbiano governato nella fase espansiva delle prestazioni sociali e che, al loro impoverimento, si sono trovate progressivamente spoglie di simboli, voti e soprattutto idee. La modernizzazione liberaldemocratica perseguita dall’ala europeista dei laburisti ha lasciato il campo a forme molto più spicce di propaganda che tuttavia sono senz’altro apparse ben più legate agli interessi immediati e reali della popolazione (a prescindere se poi questi ultimi siano stati effettivamente attuati o meno). 

Per una malintesa eterogenesi dei fini, il mito dell’ebreo errante si è così proiettato sulla diaspora organizzativa e di riconoscimento sociale della sinistra storica: in un caso, però, quella fuga è stata dettata da contingenze storiche anche gravi; ai giorni nostri, l’eclissi della sinistra politica, anche in Israele, si è spesso ammantata di una volontaria abdicazione dai temi reali dell’ingiustizia civile. Non più in grado di rivendicare autorevolezza nell’abbatterli, non più capace di correggerli con l’azione governativa, non più sufficientemente forte quantomeno da orientarli attraverso la combinazione di provvedimenti legislativi e iniziative di massa. Quella stessa sinistra sul piano della pacificazione in Palestina si era fermata agli accordi di Oslo, che pure avevano fatto credere per vicinissime la pace e la prosperità; oggi, riprendere il filo della concordia passa necessariamente dal dotarsi di un programma materiale e di una carica ideale che l’intera dirigenza internazionale delle socialdemocrazie sembra sempre più in difficoltà ad incarnare.