Mons. José Tolentino Mendonça, dal 26 giugno scorso archivista e bibliotecario di Santa Romana Chiesa, poeta e scrittore, riceverà oggi (domenica 2 settembre) a Terrasini (Palermo) il premio “Una vita per… passione!” a conclusione della III Festa del quotidiano Avvenire. José Tolentino Mendonça è una delle voci più autorevoli e note della cultura portoghese, protagonista del dibattito culturale europeo, autore di poesie e saggi che gli hanno valso vari riconoscimenti.
Molti dei suoi libri sono tradotti in italiano, l’ultimo dei quali, Elogio della sete, raccoglie le meditazioni offerte a papa Francesco nel corso degli esercizi spirituali del febbraio di quest’anno, a conclusione dei quali il pontefice ha detto: “Grazie, Padre, per averci parlato della Chiesa, per averci fatto sentire la Chiesa, questo piccolo gregge. (…) Grazie per averci ricordato che la Chiesa non è una gabbia per lo Spirito Santo, che lo Spirito vola anche fuori e lavora fuori. E con le citazioni e le cose che Lei ci ha detto ci ha fatto vedere come lavora nei non credenti, nei ‘pagani’, nelle persone di altre confessioni religiose: è universale, è lo Spirito di Dio, che è per tutti”.
Monsignore, lei è nato nell’isola di Madeira e vive praticamente di fronte all’Atlantico. Come si vede l’Europa dal Portogallo?
Geograficamente, il Portogallo rappresenta per l’Europa una frontiera, è la sua frontiera atlantica. Ora, le frontiere sono laboratori importanti di identità. Normalmente hanno il ruolo di porte d’ingresso, sono luoghi di prima accoglienza dell’alterità, luoghi con una plasticità culturale maggiore. E sono anche finestre aperte su altre possibilità di futuro, che sconfessano la logica dell’isolamento. Un Paese piccolo come il Portogallo è un osservatorio interessante per capire che l’identità europea ci guadagna molto nel costruirsi in un dialogo franco con altre regioni e culture. Un popolo di navigatori come quello portoghese, o quello italiano, dimostra che quello che siamo si realizza anche nel viaggio incontro all’altro. Credo che fu soprattutto per questa ragione che il poeta Fernando Pessoa chiamò il Portogallo “volto dell’Europa”.
Portogallo e Italia sono in fondo periferie della stessa Europa, in cui gli Stati più piccoli contano sempre meno, chiusi e strozzati dalle politiche economiche delle grandi nazioni e dalla burocrazia che impera a Bruxelles. Come fare per stabilire un maggiore equilibrio?
Quel che oggi avvertiamo, e in modo urgente, è la necessità di rifondare il progetto europeo, ricuperando gli ideali umanisti dei padri fondatori dell’Europa. Come insistentemente esorta papa Francesco, l’Europa di oggi deve acquistare coscienza che essa non è, in primo luogo, un insieme di numeri o di istituzioni burocratiche, ma è un’Europa fatta di persone. Il suo futuro passa per la riscoperta del senso di appartenenza a una comunità. E la comunità è l’antidoto più efficace agli individualismi che caratterizzano il nostro tempo.
Ma in definitiva cos’è oggi l’Europa? Tutti sanno dire cosa non dovrebbe essere, ma cosa può ancora essere? Per fare l’Europa ci vuole l’unità, ma attorno a che cosa?
Il grande statista Robert Schuman, da molti ritenuto il grande architetto del progetto europeo, parlava dell’Europa con un’espressione a cui dobbiamo tornare. Diceva: l’Europa, che non ha frontiere naturali come l’Australia o l’Africa, che è il risultato di un lungo e complesso processo storico di sviluppo, è chiamata ad essere “un progetto spirituale di fraternità”. La parola fraternità sembra essere oggi caduta in disuso. Ma la verità è che racchiude un grande potenziale di futuro. Quando ci scopriamo fratelli, ci lasciamo alle spalle l’inimicizia, la competizione feroce, l’ostilità, e osiamo la collaborazione, la condivisione, la compagnia.
Il risultato delle prossime elezioni europee sembra già scontato. Come potranno coesistere aspirazioni sempre più nazionalistiche con esigenze necessariamente comunitarie?
Quando la paura diventa la timoniera della nostra barca, sappiamo già come il viaggio andrà a finire. L’Europa è una comunità di popoli. Ciascuno ha la propria storia, è vero, che deve essere protetta e valorizzata poiché rappresenta una ricchezza. Ma l’Europa non può desistere dal convergere su un progetto comune, eticamente qualificato. Una comunità di popoli non può essere una somma di egoismi e di paure.
L’appello di san Giovanni Paolo II sulle radici cristiane dell’Europa sembra lontano anni luce, ma soprattutto inattuale. Queste radici cristiane sono un fatto storico o hanno ancora qualcosa da dire agli europei e anche a quanti per vari motivi giungono da fuori?
La modernità ha una difficoltà con l’idea stessa di radice. È una questione culturale. La modernità vive sottolineando la propria autonomia. Non c’è dubbio che l’autonomia ha dato frutti importanti, perché è un bene, quando si tratta di costruire l’avventura dell’essere. Tuttavia non sono realtà incompatibili, l’autonomia e le radici. Al contrario: non si raggiunge la maturità senza un’integrazione equilibrata di tutte le componenti della nostra storia. Un giardiniere sa che non deve innaffiare il fiore, ma la radice. È curando le radici che il fiore fiorisce.
La società multietnica e multireligiosa che comunque si sta affermando su quali valori o principi potrà basarsi per evitare una guerra di tutti contro tutti?
La pace è un frutto della convivenza rispettosa, dell’incontro e della solidarietà. Non possiamo pensare che stiamo meglio da soli. Non è così. La vita è fondata sull’interdipendenza. Abbiamo qui ancora un lungo cammino culturale da percorrere.
La fede di tutte le religioni cristiane, chiamata nei prossimi anni a confrontarsi non solo con l’islam, ma soprattutto con quelli che non hanno più fede in nulla, cosa ha da dire agli abitanti dell’Europa? Ha ancora senso e speranza confrontarsi sulla concezione della famiglia, della convivenza, del futuro, del lavoro?
Mi viene in mente tutto il lavoro sviluppato dal cardinale Jean-Louis Tauran, scomparso di recente, nell’ambito del dialogo interreligioso. Una domanda che gli facevano è se aveva senso continuare a dialogare quando pare che non succeda niente, non cambi nulla, e anzi ci sono irruzioni di violenza che sembrano smentire le virtù del dialogo. Lui rispondeva sempre: “Più è difficile, più è necessario il dialogo”.
La sua ricetta, se così si può dire, è racchiusa nella parola amicizia. Ci dice innanzitutto perché è importante, come dice spesso, distinguere tra amicizia e amore?
Con molta facilità, quasi per un automatismo, noi adottiamo il vocabolario dell’amore, che corre il rischio di diventare una grammatica sonnambula. Diciamo “io amo” senza che ciò inneschi la minima vibrazione o corrisponda a un impegno effettivo. Il pericolo del vocabolario dell’amore è di perdersi nell’indefinito, di allargarsi nell’illimitato della soggettività: non sappiamo bene cos’è l’amore; è sempre tutto e niente; rischia di divenire una retorica vacua. L’amicizia è una forma più oggettiva, più concretamente delineata, probabilmente più possibile a viversi. Forse la grande differenza tra amore e amicizia sta nel fatto che l’amore tende sempre all’illimitato. Nell’amore la rivelazione deve essere totale, deve essere assoluta: nella debolezza, nell’apertura, nella conoscenza, senza pieghe, senza riserve. Nell’amicizia accettiamo in modo più naturale la differenza, una certa distanza che non è vista come ostacolo alla fiducia, che è anzi condizione per la rivelazione di sé.
Come si può credere nell’amicizia se nessuno sembra avvertirne il bisogno, se anzi l’egoismo sembra essere l’unica medicina per evitare guai maggiori?
Non credo che questo sia del tutto vero. L’amicizia continua e continuerà ad essere un patrimonio indispensabile alla vita di tutti noi. Bisogna fare di più l’elogio dell’amicizia e del suo ruolo nelle nostre vite. E non solo a livello individuale. Come scrive Aristotele nell’Etica nicomachea, l’amicizia è anche una virtù civica, poiché tiene unite le comunità e lo Stato. L’amicizia è una forza di coesione umana e sociale.
Un altro suo cavallo di battaglia sono le storie, soprattutto quelle narrate nei Vangeli. Eppure oggi nessuno ha più tempo né per la storia (basta l’attualità) né per le storie (bastano i 140 caratteri di Twitter). Perché allora abbiamo ancora bisogno di racconti?
La necessità di raccontare delle storie è una necessità biologica. In primo luogo perché raccontare è raccontarsi. La narrazione è una forma artigianale e umanissima di comunicazione. Il narratore prende ciò che narra dell’esperienza — sua personale o che gli sia stata riferita — e lo trasforma in esperienza per quanti ascoltano la sua storia. Il teologo Johann Baptist Metz, per esempio, sottolinea l’urgenza di riconoscere e di rivalorizzare le strutture narrative della fede, ricuperando nell’educazione religiosa il magistero delle storie: solo questo ci garantisce di tracciare il nostro cammino su esperienze personali, originali e autentiche.
Lei ha avuto l’onore di predicare gli esercizi spirituali del febbraio scorso alla Curia romana. Il Papa l’ha ringraziata anche per le storie evangeliche che ha saputo far rivivere in quei giorni. Che rapporto umano porta in sé dopo questa esperienza?
Papa Francesco è una bussola sicura per questi tempi della Chiesa e dell’umanità. Le sue parole e i suoi gesti hanno un inconfondibile profumo evangelico. È impossibile non rimanere toccati dalla sua testimonianza.
(Francesco Inguanti)