Conquistato dal genio di Galileo e dall’audacia del suo amico Cigoli, il visitatore di S. Maria Maggiore, di solito, non si pone domande riguardo agli ideatori del programma iconografico della Cappella Borghese. Gli pare un esercizio sterile interessarsi agli uomini che, su investitura di Paolo V, fornirono al pittore le istruzioni che egli sarebbe stato tenuto a osservare una volta salito sulle impalcature, anche per dare forma al dipinto destinato alla cupola. In vero, solo dal 1996 si conosce l’identità di questi personaggi rimasti a lungo nell’ombra a favore di Cesare Baronio, erroneamente riconosciuto come l’artefice delle istruzioni, tutt’ora conservate manoscritte, che il frescante avrebbe dovuto interpretare. Si tratta di due religiosi, arcidotti giuristi e teologi, membri illustri, come lo stesso storico sorano, della Congregazione dell’Oratorio: Tommaso Bozio e suo fratello minore Francesco, il primo morto nel dicembre del 1610, pochi mesi dopo che Cigoli aveva impugnato il pennello; il secondo, invece, vissuto sino al 1643. Quali disposizioni fornirono i due filippini all’amico di Galilei e di Federico Cesi, fondatore, nel 1603, dell’Accademia dei Lincei che nell’aprile del 1611 incluse nel proprio albo lo stesso scienziato toscano? 



Gli affreschi della Paolina dovevano celebrare la gloria della Madre di Dio e, alla fine dei tempi, la sua definitiva vittoria sull’eresia. Quelle immagini sarebbero state degli equivalenti visivi delle storie sacre: altrettanti documenti della verità della parola divina che, sulla volta della Cappella, avrebbe trovato la sua massima espressione simbolica, figurando la apokalypsis (“rivelazione”) di Patmos, ovvero la certezza della gloria del popolo di Dio oltre tutte le tribolazioni patite ad opera del demonio e dei suoi accoliti. 



I fratelli Bozio: due paladini della Controriforma. Due soggetti apparentemente lontani da Copernico, Galileo, Cigoli e Cesi, il quale, nella capitale pontificia, operava da supporter dell’autore del Sidereus nuncius. Bozio senior morì troppo presto per vedere compiuto il lavoro del pittore che fungeva da cassa di risonanza del “Messaggero sidereo” (libro e autore). Bozio iunior, invece, visse molto di più del necessario per visionare l’affresco. Ne fu egli sorpreso e turbato? Lo avvertì come una trasgressione agli ordini esecutivi forniti al pittore? Oppure ne apprezzò senza riserve i contenuti, avendo approvato le ragioni dell’artista ed essendosene fatto garante presso i committenti, considerata la corresponsabilità da lui ricoperta su investitura di Paolo V nell’ideazione del ciclo pittorico affidato a Cigoli? Prove documentarie di una simile eventualità non sembrano esservi. Non mancano, però, gli indizi in tal senso. 



Federico Cesi fu molto più affezionato a Tommaso Bozio che a Ludovico Cardi (il Cigoli). I due — come ho segnalato in un saggio oggi in corso di stampa — furono membri della stessa confraternita romana dal 1596 alla morte del filippino, nel 1610. Appartennero alla medesima compagnia di devoti per un quindicennio, un terzo dell’intera vita del fondatore dell’Accademia dei Lincei, il quale entrò in quella fraternitas quando aveva 11 anni, trovando nel teologo della Chiesa Nuova, ascrittovi dal 1594 e di quasi quarant’anni più maturo di lui, un solido riferimento orientativo negli anni decisivi della sua formazione morale e religiosa e, forse, un direttore di coscienza. Va inoltre considerato che lo stesso Tommaso Bozio — avvinto cultore anche di studi scientifici — fu il proprietario di una delle 550 copie del Sidereus nuncius che, edite il 13 marzo 1610, andarono esaurite presso l’editore appena nell’arco settimana. Una disponibilità libraria, quella boziana, priva di attinenza con una scelta bibliografica à la page. Riconducibile, piuttosto, con ogni probabilità, a un dono o a un prestito (mai riscattato) del principe dei Lincei al suo confratello e, più esattamente, a una cessione non solo contestuale, ma anche coniugata, con un valore d’uso, all’impegno dell’oratoriano nell’allestimento del programma della Paolina. 

Una lunga e autorevole tradizione esegetica riconosceva l’astro evocato dall’Evangelista come simbolo di caducità e di durata transitoria, con il quale siglava un contrasto denso di significato morale la “Donna vestita di Sole” che ne calpestava il suolo, nella sua valenza allegorica di substrato corrotto ed effimero. Nel 1610, il telescopio galileiano smentì il De coelo aristotelico (non già le Sacre Scritture, nelle quali nulla si legge a proposito della fisica delle sphaerae); confermò la tesi maturata a occhio nudo da Plutarco circa la natura montagnosa del suolo dell’astro e aguzzò la vista comune sino a farle, in un certo senso, pareggiare quella profetica. Sono dell’avviso che la clamorosa convergenza esegetico-naturalistica venuta in luce nel 1610 dovette rappresentare per i fratelli Bozio un valido motivo di incoraggiamento all’introduzione di una Luna dalla superficie “imperfetta” nella basilica Liberiana, celebrando in tal modo il simmetrico dettato del testo dell’Evangelista e della notifica astronomica addotta dal “nuovo Cristoforo Colombo”, come secondo un topos celebrativo coniugato all’apparizione del Sidereus nuncius, Galilei venne acclamato da più parti. 

Mi pare del tutto plausibile che, tra il 1610 e il 1612, al pittore non sia mancato l’avallo di almeno uno dei suoi due istruttori, allorché egli si ripromise di rappresentare la Luna come Dio l’aveva creata e come la scienza aveva rivelato che fosse, offrendo ai fedeli raccolti a S. Maria Maggiore un vero e proprio “sostituto visivo” dell’osservazione telescopica. Gli affreschi della Paolina, nelle intenzioni dei loro progettisti, dovevano essere “documenti della Verità” ed erano due, nel comune sentire dell’epoca, i Libri che custodivano quei contenuti essenziali: la Bibbia (il Libro della parola di Dio) e il “Libro della Natura”, la summa autografa dell’incessante opera fabrile dell’Architetto del cosmo, lo specchio della divina perfezione e, al tempo stesso, la scala attraverso la quale, risalendo l’ordinamento gerarchico della creazione, la mente umana poteva elevarsi sino alla conoscenza dell’ente supremo. Risulta difficile pensare che gli autori del programma iconografico della Cappella Borghese non abbiano desiderato che il dipinto destinato al punto fisicamente più alto del luogo sacro, dove il formidabile dispositivo dottrinale da essi approntato trovava la sua eminente espressione simbolica, aderisse anche alla verità del “Libro della Natura” scritto digito Dei. 

I due Bozio (quali istruttori e garanti della prestazione di Cigoli); Cesi (nel ruolo di supporter di Galilei e di consigliere scientifico di Tommaso Bozio); Galilei (nelle funzioni di noto consulente di Cigoli in fatto di prospettiva); il cardinale Serra (soprintendente ai lavori nella Cappella Borghese e uno degli uomini di fiducia del cardinale Bartolomeo Cesi, zio di Federico); Paolo V e suo nipote (del tutto confidenti nell’adeguatezza dei Bozio e dell’artista ai compiti loro assegnati ed entrambi affascinati sia dal telescopio che dal “Messaggero sidereo”); infine, il pittore toscano, che venne sepolto in S. Giovanni de’ Fiorentini, un luogo-simbolo della Congregazione dell’Oratorio e che intrattenne relazioni ottimali con Cesi e i primi Lincei, ma anche rapporti quanto meno d’ufficio con padre Tommaso e padre Francesco, il primo dei quali unito con Federico da una fratellanza religiosa più vincolante ancora di una consanguineità naturale, furono tutti – ciascuno a suo modo – protagonisti di quanto accadde in S. Maria Maggiore.

(2 – continua)