Nelle pagine iniziali dell’Agricola, Tacito scrive alcune righe che possono far pensare in un tempo troppo dimentico della grandezza del passato, stancamente proteso a esecrare alcune tragedie della storia del secolo scorso e a coprirne di voluto oblio altre, secondo i dettami di un comune sentire ben lontano dalla criticità degli storici.
In primo luogo, Tacito loda “l’uso antico di tramandare ai posteri il ricordo delle azioni e dei costumi degli uomini illustri” al fine di “vincere e sopraffare il vizio comune alle piccole e alle grandi società: l’ignoranza e l’invidia del giusto”. Poco dopo ricorda l’uccisione da parte di Domiziano e di Vespasiano di due oppositori del regime imperiale e la condanna al rogo dei loro scritti. “Già! Con quel fuoco essi credevano di annientare la voce del popolo romano, la libertà del senato e la coscienza del genere umano: dopo aver cacciato in esilio i maestri della sapienza perché nessuna cosa onorevole fosse più loro di impaccio”.
Venti secoli dopo i metodi per liberarsi degli oppositori non sono forse così brutali, ma in sostanza basta poco anche ora per emarginare e sopprimere le voci critiche e con loro per ridurre l’opinione pubblica a serva sciocca dell’unico pensiero dominante: “Abbiamo dato per certo un grande documento di pazienza: per mezzo delle spie ci fu tolta pure la facoltà di parlare e di ascoltare: la parola stessa avremmo perduta insieme con la voce, se fosse in nostro potere dimenticare come tacere”.
L’indignazione tacitiana si stempera poco sotto e persino la prosa respira: “Tunc demum redit animus”. “Torna l’animo ora, certamente: ora che Nerva ha potuto congiungere due cose un tempo inconciliabili, principato e libertà, e Traiano accresce ogni giorno la felicità dei tempi”.
La speranza dello storico, che può tornare a scrivere senza paura, è ben temperata dal realismo imposto dalle cose: “Ma per la natura stessa dell’umana debolezza sono più tardi i rimedi che i mali: e come i nostri corpi lentamente crescono, d’un tratto si estinguono, così è più facile opprimere le attività dell’ingegno che ridestarle. L’ozio ha infatti una sua insinuante dolcezza e l’inerzia dapprima odiosa finisce col farsi amare”.
Le considerazioni tacitiane non possono essere applicate ad altri periodi storici se non con molta prudenza, ma restano, a parere di chi scrive, utili per indagare i rapporti sempre complessi tra potere politico, libertà della cultura, parola, silenzio e memoria. Soprattutto se sono viste alla luce di altre attribuite quasi sicuramente a lui, tratte dalla sua opera giovanile sull’oratoria. In essa l’origine dell’eloquenza viene fatta risalire alla parola poetica: “L’animo si ritrae in luoghi puri e innocenti e gusta la gioia di una sacra dimora. Questa è stata la culla della parola, questo il suo sacrario. In questa forma e in queste condizioni per la prima volta la parola è entrata, per il bene dei mortali, in quei petti casti e incontaminati dai vizi; così parlavano gli oracoli. Perché la pratica di questa nostra eloquenza, tesa al guadagno e grondante di sangue, è un fatto recente, nato da cattivi costumi: è stata inventata come arma di offesa. Invece quella felice e, per usare il nostro linguaggio, aurea età, povera di oratori e di accuse, contava poeti e vati in abbondanza, per cantare le belle azioni invece che per tutelare i misfatti”.
La lode del tempo antico è frequente negli antichi autori. Per questo, tralasciando ciò che era ovvio per loro, è possibile che in questo testo il lettore di oggi trovi di che riflettere sull’uso pubblico e privato delle parole, così invadenti e così svilite nell’era della comunicazione.