Alla vigilia della canonizzazione di Paolo VI, fissata per il prossimo 14 ottobre, fare memoria del suo pontificato significa innanzitutto ritornare alla solenne professione di fede pronunciata in piazza San Pietro il 30 giugno 1968. Se il compito di Pietro, affidatogli da Gesù, è quello di confermare i fratelli nella fede (Lc 22,32), non sorprende che lo stesso Paolo VI nella sua ultima celebrazione pubblica, il 29 giugno del 1978, quasi a fare una sintesi dell’arco di tempo in cui “Il Signore ci ha affidato la sua Chiesa”, ritorni a quel “suo atto importante”, ovvero “la sommaria professione di fede” di dieci anni prima, pronunciata nel momento in cui “facili sperimentalismi dottrinali sembravano scuotere la certezza di tanti sacerdoti e fedeli”.



In realtà, la tradizione della Chiesa ha quasi sempre promulgato un nuovo simbolo di fede dopo ogni Concilio ecumenico. E in questa direzione si era mosso ad esempio il teologo domenicano Congar: davanti alle sue insistenze, nel giugno del 1964 Paolo VI gli chiese di preparare un testo, che però alla fine non lo convinse. Per comprendere la genesi del Credo del popolo di Dio occorre seguire un’altra pista, che prende le mosse dall’affinità elettiva tra Jacques Maritain, il grande filosofo francese convertito all’inizio del Novecento, e Giovanni Battista Montini. Un’amicizia stretta attorno all’esigenza del dialogo tra fede e cultura, e che portò l’allora sacerdote bresciano a tradurre il primo testo di Maritain in italiano nel 1925, i Tre riformatori



Negli anni Cinquanta sempre Montini difenderà il pensiero di Maritain dalle accuse di “naturalismo integrale”, piovute per lo più a causa dell’interpretazione progressista portata avanti da molti suoi discepoli italiani. E infine, alla chiusura del Concilio, Paolo VI consegnò al filosofo francese il Messaggio agli intellettuali e agli uomini di scienza. Tuttavia, proprio all’indomani del Concilio sorgono divergenze tra l’iniziale ottimismo del primo Paolo VI e le prese di posizione di Maritain che saranno rese pubbliche nella sua opera matura Le Paysan de la Garonne del 1966, in cui il filosofo denuncia “un’apostasia immanente” che si prepara nella Chiesa. Una crisi “di cui Roma ancora non si accorge” e che mira a “indebolire e distruggere la fede”. 



Il motto del libro reca un proverbio cinese: “Non prendete troppo sul serio la stupidità”. Quale stupidità? quella di inginocchiarsi davanti al mondo, considerando le verità di fede del Credo degli apostoli del tutto simboliche. Da qui prenderà corpo “l’idea” che Maritain trasmetterà al cardinale Journet il 14 gennaio del 1967, in risposta alla lettera in cui il cardinale gli comunicava di essere stato chiamato a Roma da Paolo VI: il pontefice era infatti inquieto per il catechismo olandese presentato nel mese di ottobre, catechismo che di fatto, come osserverà in seguito Journet, “sostituiva un’ortodossia moderna all’ortodossia tradizionale”. 

L’idea a Maritain era balenata “da diversi giorni, con una tale intensità e chiarezza che non credo di poterla trascurare”: essa nasceva dalle critiche mosse verso coloro che nella Chiesa riducevano le verità di fede ad un mito, “col pretesto che non erano state definite esplicitamente come tali dalla sovrana autorità della Chiesa”. Da questo punto di vista, Maritain osserva come, per “conservare il bene assolutamente essenziale, che è l’integrità della Fede”, occorra “un atto sovrano dell’Autorità suprema che è quella del vicario di Gesù Cristo; non un atto disciplinare, né delle esortazioni, né delle direttive, ma un Atto Dogmatico, sul piano della fede stessa. […] Ecco il solo rimedio efficace, che il Sovrano pontefice rediga una Professione di Fede completa e dettagliata, nella quale sarebbe esplicitato tutto ciò che è realmente contenuto nel Simbolo di Nicea, questa sarà nella storia della Chiesa la professione di fede di Paolo VI”.

Journet incontra Paolo VI il 18 gennaio, consegnandogli le pagine della lettera di Jacques. Nel corso dell’udienza Paolo VI, che oramai aveva abbandonato ogni ottimismo irenico, rivela a Journet l’idea di un Anno della fede da promulgare in occasione del XIX centenario della morte di san Pietro. Verso la fine dello steso anno, il 14 dicembre del 1967, Journet viene nuovamente ricevuto dal Papa che gli confida di essere profondamente colpito dalla lettura del saggio di Maritain Verso un’idea tomista dell’evoluzione, segno del fatto che, a suo avviso, Maritain si trovi in “un momento privilegiato della sua vita”. 

È in questa circostanza che Journet chiede al Papa se per la fine dell’Anno della fede avesse in animo di pubblicare qualche grande documento. La risposta di Montini fu sorprendente: “preparatemi voi uno schema di ciò che pensate debba essere fatto”. Journet scrive immediatamente a Maritain: “Allora, Jacques, com’è possibile non chiedere il vostro aiuto? È la questione del tono da trovare, così come delle cose da dire, non servirebbe un nuovo Syllabus“. Maritain allora prepara un testo che, diversamente dalle formule antiche, copre tutto il campo della fede, e lo invia a Journet il 20 gennaio, suggerendo di radicare la professione nella scia dei Credo antichi ma attribuendole uno stile nuovo e presentandola in forma di diretta testimonianza autorevole del santo Padre. Journet si dice “sbalordito di riconoscenza”, e trasmette il testo elaborato da Maritain a Paolo VI. La bozza troverà il pieno consenso del Santo Padre che, con piccoli ritocchi di forma, reciterà il testo in piazza san Pietro il 30 giugno del 1968, al termine dell’Anno della fede. 

Maritain annoterà sul suo diario di sentirsi “confuso per essere stato ingaggiato in un mistero che mi sorpassa così tanto”. E in effetti il significato di quell’atto andava oltre il gesto in quanto tale: in quell’anno, simbolo della contestazione, il Papa aveva semplicemente reso testimonianza all’intera Tradizione della Chiesa, segno profetico di un nuovo modo di interpretare l’autorità, che apriva di fatto la strada per pensare il ’68 in un modo diverso e fecondo.