Con la pubblicazione del libro Inseparabili. Due gemelli nel Caucaso (traduzione di Patrizia Deotto, Guerini 2018) entra finalmente a far parte del panorama della narrativa russa tradotta in italiano Anatolij Pristavkin, uno degli scrittori sovietici più noti, che nel 1988, proprio per questo romanzo, è stato insignito del Premio statale dell’Urss. 



La vicenda è ambientata nel 1944 e l’autore, prendendo spunto da un’esperienza autobiografica, ricostruisce la tragedia della guerra attraverso gli occhi dei suoi due piccoli protagonisti, i gemelli Saška e Kol’ka Kuz’min.

Il romanzo si muove su un doppio binario. Da una parte il lettore viene emotivamente coinvolto negli ingegnosi e divertenti stratagemmi messi a punto dai due orfanelli undicenni, identici come due gocce d’acqua, che sono perennemente tormentati dal bisogno di placare i morsi della fame. Quando nello squallido orfanotrofio di Tomilino, alla periferia di Mosca, sentono improvvisamente risuonare la parola magica “Caucaso”, nella loro mente si delinea l’immagine di una terra meravigliosa, zeppa di stanze del pane, dove finalmente saziarsi a volontà. È questo lo spirito che li anima, quando vengono trasferiti insieme ad altri cinquecento ragazzi orfani nella terra fertile del Caucaso, dove fa caldo e come nelle fiabe c’è abbondanza di ogni bendidio, ma in giro non c’è un’anima, solo un grande silenzio, interrotto di tanto in tanto dall’eco di spari e di esplosioni.  



È quel silenzio innaturale che preannuncia la seconda linea di sviluppo del romanzo, la narrazione di una tragedia nella tragedia, di un evento storico, passato sotto silenzio dalla storiografia sovietica e che Pristavkin, nel romanzo, rievoca in tutta la sua drammaticità: la deportazione di interi popoli dalle proprie terre di origine. 

I gemelli Kuz’min, inconsapevoli usurpatori di terre altrui, si ritrovano coinvolti nelle tragiche vicende conseguenti alla deportazione forzata dei ceceni accusati di tradimento e collaborazionismo con il nemico. Gli inaspettati e luttuosi eventi individuali e sociali che i ragazzini si trovano a fronteggiare li rendono consapevoli del fatto che progetti inconcepibili hanno causato dolore sia in chi è stato obbligato a stabilirsi nelle terre e nelle case altrui, sia in chi è stato cacciato dalla propria terra e costretto ad abbandonare definitivamente i simboli della propria memoria culturale e familiare, testimoni perenni dell’identità del singolo, ma anche di un intero popolo.



L’originalità del romanzo si manifesta nella scelta dello scrittore di far rivivere in presa diretta, attraverso il vissuto quotidiano dei suoi piccoli protagonisti, la particolare dimensione storico-culturale degli anni Trenta e Quaranta in Unione Sovietica, caratterizzata da una profonda dicotomia. Alla descrizione dei luttuosi e complessi eventi, individuali e sociali, legati alla guerra e alle assurde deportazioni forzate di popoli, Pristavkin affianca una rappresentazione della quotidianità di segno opposto, di quel mondo radioso creato dalla propaganda sovietica, dove risuonano i canti patriottici e celebrativi dedicati al compagno Stalin e le canzoni riprese dalle commedie musicali in voga, che i due gemelli, insieme ai loro coetanei, cantano a squarciagola.  

Se si considera questo mondo scintillate e luminoso, gestito e promosso dalla propaganda staliniana, sulla base delle condizioni reali dei gemelli Kuz’min e degli altri orfani, che sono trattati, salvo rare eccezioni, con indifferenza o addirittura con una palese dimostrazione di totale noncuranza di fronte alla loro misera sorte, perché considerati semplici pedine da utilizzare per realizzare progetti inconcepibili, emerge un quadro grottesco su cui ricade una luce sinistra. Un quadro reso ancora più paradossale dallo slogan “Grazie compagno Stalin per la nostra infanzia felice”, che nel romanzo viene gridato dalla direttrice del centro di accoglienza di Groznyj, Ol’ga Christoforovna, e accolto dagli urrà degli orfani, radunati intorno all’albero di Natale, diventato albero dell’Anno nuovo dal 1935, quando questa festa fu restituita ai bambini sovietici. 

Nella parte conclusiva del romanzo si trovano pagine molto commoventi, dove Pristavkin analizza con profonda sensibilità gli stati d’animo e i sentimenti suscitati in uno dei suoi protagonisti da un’esperienza particolarmente dolorosa. Tuttavia lo scrittore apre uno spiraglio di speranza, chiudendo il romanzo con un’immagine di fraterna amicizia, auspicio di comprensione reciproca e di pace.

Un messaggio di grande attualità, che pone in primo piano il problema della tolleranza, della necessità del confronto e dell’importanza del dialogo per una coesistenza pacifica tra i popoli, messa così a dura prova nella nostra epoca.

La bella traduzione del romanzo di Pristavkin, promosso da Memorial Italia e pubblicato da Guerini e Associati, inaugura la collana “Narrare la memoria”. L’obiettivo della collana è recuperare e diffondere opere inedite di letteratura memorialistica dell’Europa Orientale, dedicate agli eventi che hanno segnato la storia del Novecento, e in particolare dell’Unione Sovietica, nelle quali le esperienze personali e le testimonianze dei singoli protagonisti, filtrate dalla narrazione autobiografica, s’intrecciano allo scenario storico, politico e culturale.