Si sono viste di recente su internet delle foto che ritraevano il dittatore della Corea del Nord, Kim Jong-un con moglie, in visita a un allevamento di pesce gatto. Quando avevo 6-7 anni andavo con uno zio di mio padre a pescare sulle rive del Po in Veneto. Pescava pesci gatto lunghi al massimo 20 centimetri, per poi preparare un piatto in umido con polenta. Ora nel Po si trovano i pesci siluro, dei pesci gatto enormi fino a due metri. Paragonando questo ricordo e le foto propaganda di Kim Jong-un, mi è venuto da pensare che i pesci siluro siano degli esperimenti genetici mal riusciti made in Nord Corea. A pensar male si fa peccato ma qualche volta ci si azzecca.



Certo è, che nel suddetto paese, esperimenti con cavie umane se ne son fatti e sicuramente se ne fanno.

Dopo il romanzo Stella del Nord, ho approfondito il tema leggendo Fuga dal Campo 14 di Blaine Harden (Codice edizioni, 2012), dove l’autore, noto giornalista ed editorialista americano, ha incontrato e trascritto le imprese del giovane Shin Dong-hyuk, nato in un campo di prigionia e poi scappato prima in Cina, rifugiato in Sud Corea e poi negli States.



Il libro parte con una prefazione dal titolo significativo: “Un momento educativo”.  Shin aveva cinque anni e dovette assistere alla fucilazione di un prigioniero del campo. Dieci anni dopo assistette alla fucilazione del fratello e all’impiccagione della madre perché avevano tentato di scappare.

Shin era nato nel Campo 14, sua madre era prigioniera ed era stata scelta per buona condotta ad unirsi con un uomo. Il padre lo vedeva cinque volte all’anno, lavorava e viveva in una delle attività del campo, lui viveva con la madre in una stanza con cucina comune insieme ad altre famiglie. Il fratello non lo conosceva, a dodici anni era andato anch’egli a lavorare in fabbrica.



Pare che di campi di prigionia ve ne siano sei in tutta la Nord Corea e che il Campo 14 sia il più duro. Ha un perimetro di 50 km per 40 km, al suo interno colline e aspri monti, fabbriche di calcestruzzo, di produzione di divise militari, miniere, allevamenti di maiali, campi di mais e verdure. La popolazione si aggira sulle 20mila unità.

I campi furono istituiti dal primo Kim nel 1957, e vi furono rinchiusi tutti quelli che avevano combattuto contro nella guerra del 1950-53 e tutti i loro discendenti sino alla terza generazione. 

Il libro continua con un capitolo dal titolo agghiacciante: “Mai sentito la parola Amore”. Shin vedeva la madre come antagonista per il cibo, era sempre affamato, le rubava il pranzo quando lei non era in casa e poi le buscava. Il menù è stato per ventitré anni identico: pasticcio di mais, cavolo in salamoia e zuppa di cavolo. Non c’era un rapporto amorevole tra madre e figlio e quando la vide impiccata la maledisse per le privazioni che aveva subito e poi, dopo, per i sei mesi di torture e prigione a cui fu sottoposto perché i gerarchi pensavano che fosse al corrente della fuga.

Facciamo un passo indietro. Shin iniziò la scuola a sei anni e la terminò a dodici sapendo a malapena scrivere e leggere, le lezioni erano una infarcitura di dottrina, di lavaggio del cervello, di adulazione dei grandi Kim e di odio verso la Corea del Sud e gli imperialisti americani. Si veniva iniziati a essere spioni e spesso si finiva puniti con bacchettate. Una bambina venne uccisa a forza di percosse dal maestro, di cui non sapevano neppure il nome.

Terminato il periodo scolastico iniziava quello lavorativo e i ragazzi andavano in miniera a caricare secchi, spingere carrelli e scavare quasi sempre a mani nude. Diventati più adulti se andava bene andavano in fabbrica sempre con 12/14 ore di lavoro al giorno e con il solito menù. Se la produzione non veniva raggiunta si dovevano continuare a lavorare ininterrottamente.

Non si lavavano quasi mai, se non nel fiume in estate, avevano una divisa che veniva cambiata annualmente, non avevano biancheria intima. 

Essendo le condizioni di vita inumane, molti morivano per malattie e denutrizione, altri per varie ragioni venivano uccisi: se cercavi di scappare, se avevi rapporti sessuali con altre prigioniere, se ti rivoltavi, se non ubbidivi, se rubavi del cibo.

Oltre alla parola amore, non passava per l’anticamera del cervello a nessuno la parola perdono, o a dire il vero bisognava chiederlo invece per ogni minima mancanza o errore. Shin ruppe una macchina da cucire e per punizione gli fu amputata una falange. Fu torturato con il fuoco e frustato, appeso per le caviglie e per la mani a forma di U, veniva scottato su delle braci ardenti.

Per lui il mondo era il Campo 14, di tutto quello che c’era fuori non sapeva nulla. Conobbe un carcerato reduce da un rientro dalla Cina che gli raccontò del mondo esterno, del mangiare, del benessere in Corea del Sud. I due provarono a scappare, ma solo Shin riuscì a passare il reticolato elettrificato. Vagò per quasi un anno per il paese finché entrò in Cina e da lì in Corea del Sud. 

Il suo fu un caso di eccezionale rilevanza, era il primo uomo nato in “cattività” a riuscire a scappare. Il libro continua con l’approdo negli Usa e con tutte le difficoltà psicologiche e le incapacità di relazioni che Shin si portò dietro.

Sembra irreale, ma oggi, nel 2018, esistono gulag in Corea del Nord dove 200mila persone vivono da prigionieri. Il mondo lo sa, i satelliti hanno tanto di foto e immagini, basta andare su Google Earth e posizionarsi a 80 km a nord della capitale Pyongyang, ma nessuno si muove; gli Usa trattano solo il disarmo nucleare per paura che Kim Jong-un faccia partire le sue testate verso Seoul e poi anche verso l’America.