Nell’agosto del 1373, Giovanni Boccaccio riceve una petizione del Consiglio del Comune di Firenze che lo invita a commentare pubblicamente la Divina Commedia. Cultore di Dante sin dai primi passi della propria carriera intellettuale e artistica, Boccaccio accetta. E le sue esposizioni hanno inizio in ottobre, presso la Chiesa di Santo Stefano in Badia: l’eccezionale “lettore” si è impegnato ad affrontare via via i singoli canti del poema al quale han posto mano e cielo e terra, al quale adesso offre il suo omaggio anche lui, ben lieto di piegarsi a un lavoro assiduo e circostanziato. Terrà fede all’impegno fino a quando una malattia, all’inizio del 1374, lo costringerà a sospendere quegli appuntamenti, dopo circa sessanta lezioni, giunte fino ai primi versi del canto XVII dell’Inferno. Non si riprenderà, Boccaccio, da quell’infermità. Ma le sue Esposizioni sopra la Commedia di Dante, per quanto incompiute, diverranno un classico della critica dantesca di tutti i tempi.



È lecito paragonare le cose piccole alle grandi? Bisogna certo chiedere venia, confessare con modestia – non falsa, se possibile – che si tratta effettivamente di piccolezze: il lavoro delle api, avvertiva un intenditore, non è quello dei Ciclopi. Ma si licet, a Catania si è tentato qualcosa di simile, in miniatura, alla splendida, impareggiabile prova della terza corona fiorentina: leggere e commentare Dante in chiesa. A promuovere congiuntamente l’iniziativa, il Dipartimento di scienze umanistiche della locale Università e la Rettoria della Chiesa San Nicola l’Arena. In particolare: Nicola Mineo, veterano di studi danteschi, e Monsignor Gaetano Zito, protagonista del dialogo tra mondo ecclesiale e pianeta universitario. Le letture hanno abbracciato tutta la primavera scorsa e coinvolto studenti, ricercatori, cultori di poesia e non pochi altri che avevano semplicemente interesse all’opera dantesca. 



Naturalmente, in tempi come i nostri di specializzazione esponenziale, l’impresa non poteva ricadere sulle spalle di un solo interprete: Dante si affronta oggi in team, a meno di possedere qualità strepitose (e anche in quel caso, c’è pur sempre una squadra dietro le quinte). Ma questo è ovvio. Notevole invece la composizione dell’équipe che ha sostenuto la manifestazione catanese: in parti uguali, critici letterari e teologi. Ogni incontro, infatti, era a due voci, prevedendo l’alternanza di un dantista e di un esperto di sacra doctrina. Se l’approccio deve essere adeguato all’oggetto, con la Divina Commedia è davvero opportuno procedere così: non è l’opera di un poeta-teologo, di un letterato che era anche un mistico?



Opera, infatti, esorbitante e scandalosa, che tutte le epoche hanno cercato di costituzionalizzare, a costo di tagliarne via una dimensione, un aspetto, la sporgenza che non quadrava con lo schema a priori, con gli idola tribus di volta in volta professati dagli ideologi di turno, al servizio dello spirito del tempo. Anche il Novecento è caduto in questa tentazione. E noi non ne siamo immuni. Ad esempio, quando sosteniamo che la fede religiosa e la poesia costituiscono due orbite separate e incomunicanti, al massimo due marciapiedi che procedono a breve distanza ma inesorabilmente in parallelo, senza incontrarsi mai: il teologo cammina sull’uno, il poeta sull’altro, se qualcuno dei due, sbagliando, attraversa la strada, si rende conto ben presto di trovarsi in un ambiente non suo e torna indietro. Peccato che un’impostazione del genere debba lasciar fuori non pochi capolavori della spiritualità e della letteratura, nati da una contaminazione feconda, con buona pace di ogni ottica dualista. Il cristianesimo, del resto, non è per sua natura un’intersezione? Del senza tempo col tempo, dello spirito con la carne, impossibile intersezione, eppure reale, nel suo tangibile mistero. 

Le letture dantesche di San Nicola l’Arena hanno affrontato, quest’anno, la seconda cantica della Commedia. Una sfida tutt’altro che agevole, non c’è che dire. Il Purgatorio è il regno intermedio, dove eterno e storia prendono rispettivamente le misure, si confrontano a vicenda, imparano gradualmente a convivere, non senza fatica, esitazioni, strappi, poiché quell’incastro è pur difficile, e ci vuole una lunga pazienza per impararlo, ci vuole un cammino. Difatti è l’unica cantica in cui le anime non hanno ancora raggiunto la loro meta, ma tendono a essa, anche quando sono immobilizzate dalla pena (che in realtà fa progredire cuore e mente, cosa che è impensabile all’Inferno, teatro di una sofferenza senza esito di cambiamento).

È anche la cantica dei poeti, il Purgatorio. Ne raduna (o ne nomina) diversi, specie contemporanei di Dante: provenzali, siciliani, di scuola toscana, di militanza stilnovista. Ma anche classici, in primis Stazio, il pagano che Dante ama presentare come segretamente convertito, e poi numerosi suoi colleghi greci e latini, non salvati è vero, non ammessi alla santa montagna dell’espiazione, ma se non altro insigniti in quel contesto di menzione onorifica. Ai poeti, la regione del cammino, del tendere. Memori di questa indicazione dantesca, scrittori del pieno e tardo Novecento hanno rilanciato la connessione tra letteratura e purgatorio, ma a volte l’hanno fortemente curvata: purgatoriale sarebbe la scrittura creativa in quanto costruisce un mondo altro, separato dal nostro, e perciò virtuale e umbratile, ma almeno spoglio delle impurità storiche. In fondo, è ancora un dualismo: così come la fede non deve mischiarsi col saeculum, analogamente la letteratura fa meglio a volgersi altrove, a configurare un’alternativa rispetto al reale, un proprio mondo, un’utopia che trova nella pagina il suo luogo. 

Non era sicuramente il lascito di Dante: il quale spingeva la parola poetica alla massima compromissione possibile con le cose, all’assunzione della grande storia e della cronaca minuta. L’aldilà dantesco è infatti la vita terrena portata al suo acme, alla verità ultima, svelata nel significato e nel destino; e non solo in termini generali, ma rispetto a concrete, individuali esistenze, giudicate in una luce dura, che discerne il bene e il male, li chiama col loro nome, senza ambiguità. Spesso, basta una singola azione a rivelare un atteggiamento di fondo e a riassumere un’intera vicenda umana, giocata contro Dio oppure abbandonata in lui, magari alla fine; e per conseguenza, perduta o salva. Una frontiera possibile alla poesia, che è autorizzata a “fingere”, e per conseguenza può anche immaginare, per i suoi personaggi, scenari ed esiti definitivi, senza cadere per questo in una pretesa che, fuori dalla finzione, sarebbe irricevibile.

Lo doveva suggerire, qualche decennio dopo Dante, il suo ammiratore Boccaccio, e proprio nel Trattatello in lode di quel maestro: “Dico che la poesia e la teologia quasi una cosa si possono dire, dove uno medesimo sia il suggetto”. Il quasi recupera la distinzione mentre conferma l’affinità. La parola umana è tensione e approssimazione: tanto più se propone specifici consuntivi finali, se condanna senza appello o redime una volta per tutte. Le viene incontro la teologia; che, proseguiva Boccaccio, riferendosi propriamente alla Sacra Scrittura, “niuna altra cosa è che la poesia di Dio”. Non ricorre volentieri, la Bibbia, a immagini ricche di senso? Potremmo aggiungere che schiera personaggi e narra avvenimenti. Pretendendo, però, di essere letteralmente vera; sia quando inquadra fenomeni temporali, sia quando apre spiragli sull’aldilà, tanto decisi nella promessa e nell’ammonimento, quanto essenziali, discreti, persino ellittici, senza verdetti espliciti su nessuno.