Praga, 16 gennaio 1969. La vita nella capitale della Cecoslovacchia si trascina monotona e grigia sotto l’occhio vigile dei soldati intervenuti l’estate precedente per mettere fine alle riforme del “Socialismo dal volto umano”. Un giovane non ancora ventunenne, iscritto alla facoltà di Filosofia dell’Università Carolina di Praga, scuote i suoi connazionali dal loro torpore dandosi fuoco nella centralissima Piazza Venceslao, vicino al Museo Nazionale. Lascia un biglietto, firmandosi “La fiaccola numero 1” e lasciando intendere che, qualora le sue richieste non verranno esaudite, altri ragazzi si sarebbero dati fuoco. Formula due richieste: l’abolizione della censura e la cessazione della diffusione del periodico propagandistico Zpravy, gestito direttamente dalle forze sovietiche di invasione. Fin da subito il giovane Palach spiega chiaramente che il suo non è un suicidio, ma un gesto di protesta contro la soppressione della libertà d’opinione nel Paese.
Jan Palach muore tre giorni dopo e nelle reazioni al suo sacrificio e alla sua morte possiamo leggere il futuro della repubblica cecoslovacca. La spaccatura tra il regime e il popolo diventa insanabile. La classe politica, la cui normalizzazione era partita quasi subito dopo l’invasione dell’agosto 1968, rimane fredda e insensibile, mentre la popolazione si risveglia e protesta. Il dolore e l’oppressione sono tangibili. Durante il funerale, il corpo del giovane Palach viene portato in corteo.
Vent’anni dopo, il 15 gennaio 1989, i gruppi dissidenti cechi organizzano la “Settimana di Palach”. Una folla si raduna per commemorare il sacrificio di Jan in Piazza San Venceslao, nel tardo pomeriggio. Centinaia di poliziotti e militari intervengono e reprimono la manifestazione, del tutto pacifica, con una violenza sproporzionata. Il giorno dopo Vaclav Havel e diversi esponenti di spicco dell’opposizione al regime vengono arrestati. Il ricordo del gesto di quel giovane coraggioso ha risvegliato le coscienze e costretto il regime a reagire brutalmente.
Sulla scia delle proteste anche a livello internazionale il processo che porterà alla Rivoluzione di Velluto è ormai inarrestabile e vive un momento intensissimo nella performance di Joan Baez alla Bratislavska Lyra, in cui l’artista americana dedica una canzone a Havel e Charta 77 (il manifesto del dissenso cecoslovacco firmato appunto da Havel e altri intellettuali nel 1977). Successivamente viene invitato sul palco Ivan Hoffman, artista dissidente, che riesce a cantare qualche verso del suo brano Nech mi nehovoria (Non mi dicano che devo parlare ad alta voce/quelli che ieri spaccavano facce a chi taceva) prima dell’inesorabile intervento della censura.
È il ricordo di Jan Palach a scatenare tutto questo, vent’anni dopo. Per questo non credo minimamente a chi ancora oggi sostiene che il sacrificio di Palach sia stato inutile o, nella migliore delle ipotesi, sproporzionato per la storia cecoslovacca.
Oggi, cinquant’anni dopo, è significativo ricordare l’importanza di un gesto che Palach ha subito voluto sgombrare da ogni equivoco, spiegando che non si trattava di un suicidio, mentre veniva trasportato in ospedale quel giorno di cinquant’anni fa. È significativo ricordare come il sacrificio di questo ragazzo abbia avuto conseguenze dirompenti anche al di qua della cortina di ferro. Mentre i politici cecoslovacchi tentavano di screditare e infangare la memoria di Jan, persino i comunisti e gli esponenti della sinistra italiana, scossi da quanto accaduto, si espressero in termini critici nei confronti della violazione della sovranità cecoslovacca da parte dei “fratelli comunisti” dei Paesi limitrofi.
Pur attribuendo a Palach simpatie socialiste assolutamente non dimostrabili – anzi facilmente smentibili – la dichiarazione pubblicata su L’Unità del 25 gennaio 1969 non lascia spazio a dubbi: “Oseremmo parlare di un eroico atto di speranza, o modo cosciente, nella sua violenza, di incitare a una strenua speranza. Speranza in che? Anzitutto e soprattutto nella dignità, nella risolutezza, nel coraggio degli uomini perché non si rassegnino, non accettino quello che è inaccettabile, la perdita della autonomia nazionale che non è soltanto un fatto politico. […] Il sacrificio di Palach obbliga in modo stringente, ultimativo, a scegliere fra un modo o l’altro di vivere e di costruire la nuova società al di fuori di schemi che proprio un così alto sacrificio torna a rivelarci nella loro miseria: e questa nuova società non può essere che una società di pace, non di guerra, di tolleranza, non di sopraffazione, di ragioni umane, non di naturalmente feroci ragioni di stato, di vincoli internazionali che non violino le indipendenze nazionali, di socialismo e libertà, non di socialismo diviso da libertà. Sono ideali alti, mete difficili, ma la sorte di Jan Palach ha assunto per noi un significato inesorabile, non permette alibi, non pone alternative alle nostre scelte”.
Nel 2019 sembra che il ricordo del sacrificio di Jan Palach sia sempre più offuscato da una pigrizia della ragione che sembra spingerci a dimenticare cosa significasse quell’Europa spaccata a metà dalla cortina di ferro, quel desiderio di libertà che soffiava dall’altra parte di quella barriera e quel sostegno silenzioso, ma costante, che veniva da chi, non riconoscendosi nel marasma sessantottino, credeva in una società migliore e più umana, meno distruttiva e più costruttiva.
Il ricordo di Palach è già in sé la prima grande sconfitta di quel regime, che aveva fatto di tutto per annullarne la memoria, arrivando anche a esumarne il corpo in segreto per cremarlo e trasferirlo senza che la famiglia sapesse nulla. Il desiderio di conservarne intatta la memoria portò la madre e il fratello di Jan a fare causa a un politico che aveva infangato la reputazione di Jan. La storia di questa battaglia legale, condotta da una giovane legale praghese, è catturata magistralmente dalla splendida Agnieszka Holland nella miniserie “Il roveto ardente”, prodotta nel 2013 da Hbo.
Dagmar Buresova – questo il nome dell’avvocato che si prese a cuore la questione – perse la causa, perché il verdetto fu scritto dagli agenti del Kgb, che seguivano da vicino l’evolversi della situazione. Ma lottò fino in fondo perché si facesse giustizia, anche a costo di subire gravi conseguenze nella vita privata, come il tradimento di un collega e amico o la perdita del lavoro del marito, medico affermato e apprezzato, costretto a fare il pendolare a orari impossibili in seguito al licenziamento dall’ospedale in cui lavorava. Dagmar Buresova, che sarà poi nominata ministro della Giustizia della Cecoslovacchia libera nel 1989. Solo una delle tante figure ispirate dal sacrificio di un ragazzo che si era posto come preciso obiettivo quello di scuotere la coscienza della popolazione, che, come scrive sempre Palach nella sua nota, “si trovava ormai sull’orlo della disperazione”.
Probabilmente non riusciremo, nel mondo in cui ci troviamo oggi, a ricordare la figura di Jan Palach senza strumentalizzazioni. La situazione in cui si trova oggi anche la Repubblica Ceca, con il populismo e la facile caccia a un nemico esterno inesistente, crea uno stridente contrasto con il gesto di quel ragazzo, che combatteva invece un nemico esterno drammaticamente reale e pericoloso.
Per questo sarebbe necessario rileggere la storia della Primavera di Praga, della sua repressione per mezzo di un’invasione militare e del sacrificio di un ragazzo nel pieno della propria vita. Per capire quale sia il vero valore della libertà, e come l’unità, e non la divisione, abbia portato il progresso e il benessere che con tanto impegno oggi stiamo cercando di distruggere.