E’ uscita, per i tipi di Ares, “Il primo amore e altri racconti” di Anton Čechov, una selezione dei racconti giovanili del grande scrittore russo a cura di Giuseppe Ghini. I primi lavori di Čechov (1860-1904) vennero rimaneggiati dallo stesso autore così che la prima versione dei racconti venne di fatto esclusa dal canone dell’opera cechoviana. Il lavoro condotto dal curatore sulle riviste russe dell’ epoca restituisce oggi un Čechov inedito, più aperto alla speranza, “così diverso da quello spietatamente malinconico degli ultimi anni” (ndr).
Uno scherzetto
È un limpido mezzogiorno invernale… Il freddo è tanto intenso e secco che a Nadja, che mi tiene a braccetto, si coprono di brina argentea i riccioli sulle tempie e la peluria appena visibile sul labbro superiore… Io e Naden’ka siamo in cima a un’altura elevata. Dai nostri piedi giù fino alla base si stende un declivio ghiacciato, sul quale un sole civettuolo si guarda come in uno specchio. Vicino a noi c’è una piccola slitta coperta di un panno rosso vivo.
“Facciamo questa discesa, Nadežda Petrovna!” prego Naden’ka. “Una volta soltanto! Vi assicuro che ne usciremo sani e salvi”.
Ma Naden’ka ha paura. L’intera distanza che va dalle sue piccole calosce con le guarnizioni d’agnello fino alla base dell’altura ghiacciata le appare come un precipizio terribile e straordinariamente profondo. Al solo guardare giù le manca il fiato e le si blocca la respirazione; se poi si azzarderà a lanciarsi nel precipizio sulla fragile navicella che è l’esile slitta, allora evidentemente morirà o, quanto meno, ne uscirà pazza. E tuttavia, egregi signori, le donne sono capaci di sacrifici. E questo io sono pronto a giurarlo mille volte, sia pure davanti a un tribunale o davanti all’autore del recente libro Le donne. Alla fin fine, a rischio della vita, Naden’ka cede alle mie suppliche. La faccio sedere pallida e tremante sulla slitta, le abbraccio stretta la vita e insieme a lei mi precipito nel baratro.
La slitta vola come un proiettile, a rotta di collo… Fende l’aria che batte in viso, mugghia e fischia nelle orecchie, prende furiosamente per le falde e quasi cerca di strappare la testa dalle spalle. Per la pressione del vento non si ha la forza di respirare… Sembra che un diavolo ci abbia afferrato entrambi con le sue zampe e con un ruggito ci trascini all’inferno… Gli oggetti tutto intorno si fondono in un’unica striscia che si allunga e corre a precipizio… Da un momento all’altro ci rovesceremo!
“Nadja, io vi amo!” dico a mezza voce, quando il mugghio del vento e lo stridio dei pattini toccano l’apice.
Ma ecco, la slitta comincia a rallentare sempre più, il respiro riprende e finalmente ci fermiamo. Naden’ka è più morta che viva… È pallida e respira a fatica… La aiuto ad alzarsi…
“Per niente al mondo lo farei un’altra volta” dice lei guardandomi con occhi spalancati, colmi di terrore. “Per niente al mondo! Ancora un po’ e morivo!”.
Poco tempo dopo ritorna in sé e comincia a scrutarmi interrogativamente negli occhi: sono stato io a dire quelle quattro parole, oppure le è soltanto sembrato di sentirle nel fragore del turbinio? Io, come se niente fosse, sto lì vicino a lei, fumo e osservo attentamente una macchia sulla mia manica. Poi lei mi prende sottobraccio e passeggiamo a lungo intorno all’altura… L’enigma, a quanto pare, non le dà pace. Sono state pronunciate quelle parole oppure no? Sì o no? È questione d’amor proprio, d’onore… cose su cui non si può scherzare!! Di tanto in tanto Naden’ka mi guarda in viso, risponde a sproposito, serra impaziente le labbra… Il suo volto ora avvampa di gioia, ora si contrae per una nuvola di tristezza… Presto comincio a notare in lei una lotta, l’oscillazione dell’animo femminile… Lei si ferma, evidentemente vuol dire qualcosa, domandare qualcosa, ma non riesce a trovarne le forze…
“Sapete cosa vi dico” pronuncia lei senza guardarmi. “Io cioè… ecco io…”.
“Che cosa?” domando.
“Facciamolo un’altra volta… Andiamo…”.
Ci arrampichiamo su per una scaletta sulla collina ghiacciata… Di nuovo faccio sedere nella slitta Naden’ka, pallida e tremante, di nuovo voliamo a rotta di collo, e di nuovo quando l’accelerazione porta la slitta al massimo della velocità e del rumore dico a mezza voce:
“Naden’ka, io vi amo!”.
Quando la slitta si ferma, Naden’ka getta uno sguardo sul tragitto appena percorso, poi esplora a lungo il mio volto impassibile, porge l’orecchio alla mia voce indifferente, e tutta la sua figurina esprime un estremo imbarazzo…
“E questo cos’è?” sta scritto sul suo volto. Di nuovo le stesse parole! E di nuovo non è chiaro se è stato lui a dirle, oppure se mi è sembrato di sentirle.
Questa incertezza quasi la sconvolge e le fa perdere la pazienza… La povera ragazza non risponde alle domande, si rannuvola e batte nervosamente il piede.
“Andiamo a casa?” domando io, sbadigliando forzatamente…
Ma – oh, le donne! – Naden’ka vuole sentire ancora una volta quelle parole care all’orecchio delle donne…
“Veramente, a me… a me piacciono queste discese” dice lei, arrossendo. “Perché non ne facciamo un’altra?”.
A lei “piacciono” questa discese e intanto, sedendosi sulla slitta, come già le altre volte, è pallida, respira a malapena per la paura e trema come una foglia… D’altro canto, per sentire ancora una volta quelle parole è pronta a lanciarsi in cento burroni.
Ci lanciamo per la terza volta e mi accorgo che lei spia le mie labbra, per vedere se sussurrano. Ma io mi copro le labbra con un fazzoletto, tossisco, mi soffio il naso e tuttavia riesco a dire:
“Nadja, io vi amo!”.
E l’enigma rimane irrisolto! Naden’ka per poco non piange… Per tutto il tragitto che facciamo insieme dalla pista a casa, lei osserva con fare indagatore il mio volto impassibile, rallenta il passo e attende con impazienza nel caso io le ripeta quelle parole.
“Non può essere che le abbia pronunciate il vento!” esprime il suo viso. “Sei tu, caro, sei tu che le hai dette!”.
Ma, avvicinandomi a casa, io comincio a salutarla con la massima indifferenza… Lei, lentamente, malvolentieri, mi tende la mano come se aspettasse ancora; poi, dopo averci pensato, ritira la mano e dice con voce decisa:
“State a mangiare da noi!”.
A me piace essere invitato a pranzo, e accetto volentieri l’invito… Il pranzo è semplice, ma delizioso. Un bicchierino di vodka, una minestra bollente con la pasta, polpette con purea di patate e pasticcini dolci di pasta sfoglia che gemono sotto il cucchiaino… Aggiungete a questo i lunghi sguardi indagatori di grandi occhi neri che non cessano di montare la guardia al mio volto per l’intera durata del pranzo e acconsentirete che si tratta di un menù prelibato… Dopo pranzo, rimasti tête-à-tête, Naden’ka gira continuamente intorno a me come una pecorella e si strugge… È perfino pallida per l’impazienza e io… io, neanche fossi Bismarck, continuo a fare l’indiano… Me ne vado senza fare alcun accenno all’amore e addirittura senza pronunciare neanche una parola che inizi con la lettera “a”.
Il mattino seguente ricevo un bigliettino: “Se oggi andate in slitta, passatemi a prendere. N.”. E da quel giorno, insieme a Naden’ka, comincio la più assidua frequentazione della pista di slitta e ogni volta, volando giù, pronuncio immancabilmente a mezza voce sempre la stessa frase:
“Nadja, io vi amo!”.
Presto Naden’ka si abitua alla frase quasi fosse oppio o morfina. Senza di lei non può proprio vivere. Certo, slanciarsi dall’altura è terribile e spaventoso come prima, ma chi si preoccupa dei pericoli in un caso come questo? Togliete a Naden’ka la slitta e lei si getterà giù sulle ginocchia… Udire quelle parole: il resto non conta…
E, come prima, le parole d’amore rimangono un enigma… Due sono i sospettati: io e il vento… Chi dei due è il colpevole, Nadja non lo sa… Un pomeriggio vado da solo alla pista e mi nascondo tra la folla: vedo Naden’ka che si avvicina all’altura e mi cerca con gli occhi… Poi si arrampica timidamente su per la scaletta… Per quanto abbia paura di andare da sola, tuttavia lei deve infine provare: udrà quelle parole dolci e velenose scendendo senza di me? La osservo: pallida, con la bocca aperta per lo spavento, si accomoda sulla slitta, chiude gli occhi e, detto addio per sempre al mondo, prende l’abbrivio… “Žžžžž” stridono i pattini. Se Naden’ka sente quelle parole, io non lo so… Vedo soltanto che si alza dalla slitta spossata, tutta rossa… A giudicare dal suo viso, neppure lei sa se ha udito qualcosa oppure no… Per la paura le è venuta la tremarella, è stordita, non ci vede, non ci sente…
Ma ecco che sopraggiunge marzo, la primavera… Il sole si fa più dolce, la terra più grigia e cupa… La nostra altura ghiacciata si fa scura, perde la sua lucentezza e comincia a sgelarsi… Smettiamo di andare in slitta… La povera Nadja non ha più un posto in cui udire quelle parole. Chi un giorno ha smesso di fumare o si è disintossicato dalla morfina sa che cosa significa questa perdita…
Una volta, al tramonto, sono seduto in un giardinetto che confina con la casetta in cui vive Naden’ka. È ancora abbastanza freddo, per terra c’è la neve, gli alberi sono morti, ma c’è già un sentore di primavera… Vedo Naden’ka che esce sul terrazzino e dirige lo sguardo triste e angosciato verso gli alberi nudi… Il vento primaverile le batte direttamente sul viso pallido e malinconico… Le ricorda quel vento al cui ululato lei, sull’altura ghiacciata, udiva quelle quattro parole, e il suo viso si fa triste, implorante, quasi chiedesse al vento di recarle le dolci parole… Io mi avvicino furtivo e silenzioso ai cespugli, mi nascondo in attesa dietro di loro e, quando un refolo di vento si dirige dalla mia testa in direzione di Naden’ka, dico a mezzavoce:
“Nadja, io vi amo!”.
Mio Dio, che cosa non succede a Naden’ka! Lancia un urletto, si illumina in un ampio sorriso e protende le mani incontro al vento… Questo soltanto mi basta… Esco da dietro i cespugli e, senza dare il tempo a Naden’ka di abbassare le mani e di aprire la bocca per lo stupore, le corro incontro e…
E qui permettete che io mi sposi.
L’uomo senza milza
Nota del curatore – Il racconto venne pubblicato nel 1886 sulla rivista Sverčok e quindi in una nuova versione nella Raccolta completa delle opere nel 1899. Al di là del nucleo centrale comune, si tratta di due racconti diversi, con diverse atmosfere ed esiti, oltre che differenti per i riferimenti alla concreta situazione russa (per esempio viene tolto nell’ultima versione il riferimento al recente libro Le donne). Se infatti nella versione del 1886 l’enigma della dichiarazione d’amore è “questione d’amor proprio, d’onore… cose su cui non si può scherzare!”, nel 1899 esso diviene una “questione di vita, di felicità, questione di grande importanza, la questione più importante al mondo”. Com’è evidente, l’amore viene investito di una più ampia valenza esistenziale e il suo raggiungimento soggetto alla nuova concezione čechoviana della vita come trappola. Ciò è evidente fin dalla poetica amorosa del racconto: se nella prima versione abbondavano le espressioni tipiche dell’amore romantico e si insisteva sulle metafore che sottolineano la forza dell’amore (la prolungata analogia tra l’amore e le droghe), nella riscrittura del 1899 il giardinetto che immette nella casetta di Naden’ka ne è separato non casualmente da un alto recinto irto di chiodi. Ma è soprattutto la fine del racconto a distanziare le due concezioni di Čechov. Nella prima versione, quella qui tradotta, lo scherzetto si conclude con un matrimonio. Lo scherzetto resta quello che è: lo scherzo tra due innamorati, la preistoria di un matrimonio andato a buon fine. Nella versione del 1899, invece di rivelarsi infine come colui che pronunciava le parole “Nadja, io vi amo!”, il protagonista, ennesimo personaggio čechoviano messo in scacco dalla vita, si allontana inspiegabilmente e va a fare i bagagli. Lei, Naden’ka, si sposa, si chiude cioè nella solita vita ottusa della provincia russa tante volte descritta da Čechov. Non ha dimenticato, però: anzi, quelle parole costituiscono il suo ricordo più felice. E lui è ancora lì, a chiedersi perché allora pronunciò quelle quattro fatidiche parole. Al posto di un consolatorio happy end, c’è ora un incomprensibile vuoto. Al posto dello scherzetto, c’è ora lo scacco totale, il non senso.