Persino a un osservatore superficiale può apparire evidente che tanta cultura del Novecento è stata segnata dalla famosa frase “Dio è morto”, con il risultante senso di vuoto e stasi che questo ha spesso generato. Viktor Frankl, il padre della logoterapia, aveva un bel da fare a ricordarci che l’uomo ha bisogno di significato per poter vivere, mentre tanta arte ha espresso puntualmente l’opposto. Per quanto ci ponga a disagio, non possiamo rifiutare quest’arte, perché soltanto quando qualcosa viene articolato in tutte le sue varianti, solo allora riusciamo ad affrontarlo. Buzzati esplora questa tensione fra il vuoto, il mondo ostico, e la ricerca di un significato che lo riscatti. E questo è evidente nel libro della sua vita, Il deserto dei tartari, al quale don Paolo Alliata ha dedicato una recente serata letteraria a Milano (presto visibile su Youtube).
Per molti questo libro è inquietante, forse perché tratta senza mezzi termini del vuoto: una fortezza che si trova al confine con il nulla e l’ironia della vita del protagonista, il tenente Drogo, trascorsa nella preparazione di una battaglia, che avviene quando lui non ha più forze. Una vita sincopata dove, di evento in evento, il personaggio si lascia andare alle circostanze in un ambiente nel quale non riesce mai a integrarsi. È inquietante, perché il finale è tutt’altro che eroico. Possiamo considerare Drogo un perdente: muore in una locanda, dimenticato da tutti, senza più forze per opporsi all’ultima manipolazione della sua vita, sublimando quel poco che gli resta.
Oppure possiamo vedere Drogo come un vincitore, come ha detto Alliata: “Un vincitore all’ultima riga, all’ultima parola”. Il suo sorriso, con il quale si conclude il libro, riflette la pace interiore che finalmente ha trovato e che gli permette di essere dove è e non da qualche altra parte. Finalmente in quella piccola locanda di passaggio è riuscito a capire e sentire tutto il suo dolore. Questo semplice atto, che a molti può sembrare minimo, di fatto è immenso per chi indaga il cuore umano, la psiche nella sua profondità, tuttavia nella sua semplicità sfida la nostra logica mondana, dove tutto deve essere grandioso, affinché possiamo notarlo.
Questa è la sensibilità cristiana: basta un momento per riscattare una vita, perché per giungere fino a lì, si è compiuto un lungo percorso. Il percorso non è lineare, è fatto di inciampi, movimenti misteriosi che ci arrestano e ci portano da un’altra parte, nonostante la nostra apparente volontà, quel “ma” di cui ha parlato don Alliata all’inizio della conferenza. Vi sono persone, talvolta fragili durante tutta una vita che, nell’affrontare la morte, assumono una profonda forza, una grande determinazione. Altre, che ci sono sembrate sempre forti e determinate, innanzi alla morte diventano di una fragilità inaspettata. Perché la morte rende giganti taluni e non altri? Cosa è successo, quali sono i meccanismi?
Il libro comincia con una partenza e finisce con una partenza, quella più grande. Già dall’inizio ci fa notare il meccanismo di “scentramento” umano di Drogo: la vita viene sempre trasposta a questo grandioso evento che avverrà, sempre in avanti. E immediatamente al realizzarsi dell’evento, la vita perde la sua gloria presunta, si innesca il malessere e allora si va all’indietro: è troppo tardi. Per far fronte al nulla – questo tempo inesorabile che se ne va facendoci morire ogni giorno un po’ – si imbastiscono le giornate con ripetizioni di atti formali, una ferrea disciplina per fornire un “contenitore psicologico” al vuoto disorientante. Così è come Drogo trascorre la sua esistenza nella fortezza, “un implacabile spreco di vita”. Alliata ha richiamato un altro modo di far fronte a questo vuoto: “Fin a che rimuovi la realtà della morte non c’è gloria, non c’è gioia, né bellezza. Solo quando la accogli nel tuo ambito di pensiero, solo quando sei disponibile a farci i conti, la ricchezza del tempo può fiorire”. Un mistero che preme alle porte di ogni vita umana. Accogliamo l’invito? O lasceremo che cada nella colpevole disattenzione, nel vuoto? Avremo l’ardire di rischiare o ci lasceremo rinchiudere nella banalità della vita sicura? Siamo davanti a un grande invito, ma anche al rischio di non coglierlo, di lasciarlo cadere nel vuoto. Quante volte le scritture ritornano su questo tema? Quante volte Gesù stesso?, ha infine domandato Alliata. Solo vivere con consapevolezza e determinazione, con senso di avventura inesausta la propria morte, il proprio passaggio, può riscattare la mortalità della vita.
E’ difficile commentare una lezione così bene articolata rispetto a un libro così stratificato; tuttavia, forse, la profondità sta proprio nel fornirci spunti per rivivere la storia da un altro angolo. Come è stato ricordato all’inizio della serata Buzzati scriveva: “Posso chiamare Il deserto dei Tartari il libro della mia vita, perché quando stavo scrivendo capivo che avrei dovuto continuare a scriverlo per tutta la durata della mia esistenza e concluderlo solo alla vigilia della mia morte”.
Buzzati è morto trent’anni dopo la pubblicazione del libro, contraddicendo la logica letterale delle sue parole, ma lasciandoci così con un altro messaggio più profondo: lo sviluppo di certe tematiche è l’opera di tutta una vita. Buzzati ci aveva dato la chiave per percepire la sua, che per molti aspetti è anche la nostra: la notorietà raggiunta dal libro è segno di qualcosa che preme dentro di noi. Alliata, dedicandovi una delle sue serate letterarie, ha colto nelle ultime pagine del libro il riscatto del vuoto con un messaggio di azione e di speranza.