C’era il bastone del pastore Guglielmo, pastore bergamasco, nel museo del design che Alessandro Mendini progettò nel 2010 alla Triennale. Per lui quel bastone, plasmato dalla vita e non dalla mente di un progettista, aveva assoluto diritto di cittadinanza tra gli oggetti che hanno segnato la nostra storia. Era fatto così Mendini, uno dei protagonisti del design italiano, morto ieri. È difficile nascondere la tristezza per non aver più tra noi un personaggio, o meglio, un amico così. Uno che nonostante i successi a livello mondiale, si è sempre attenuto ad una semplicità di comportamenti e ad una sana autoironia. Ho avuto la fortuna di frequentarlo e di conoscerlo in più occasioni in questi anni recenti, grazie alla straordinaria amicizia che ha sempre mostrato per l’avventura di Casa Testori. Nel 2010, lo stesso anno in cui aveva firmato quel museo del design a cui aveva dato un titolo bellissimo e plurale (“Le cose che siamo”), ci aveva regalato un progetto dedicato alla stanza che era stata di Giovanni Testori nella casa di Novate. Aveva voluto che la versione in bronzo della sua celebre Poltrona di Proust venisse issata sul terrazzo della stanza, ribattezzandola “Poltrona di Testori”. Poi nella stanza con quella sana irriverenza che lo contraddistingueva, aveva messo quei suoi vasi in ceramica, dalle forme strane e vagamente antropomorfe.
Aborriva l’idea che gli oggetti fossero espressione del loro creatore. Gli oggetti per lui funzionavano se avevano vita propria: gli oggetti devono guardarci. È un pensiero che espresse anche il giorno in cui, su invito di Luca Doninelli, era andato alla Cometa di Como per incontrare i ragazzi che seguivano i corsi di design. A loro disse che non si deve aver paura di essere scorretti e quindi di sbagliare. Che per mettere vita negli oggetti, bisogna liberarli dall’ovvietà.
Quindi meglio prendersi delle libertà nei colori o nelle forme piuttosto che restare schiavi delle esigenze funzionali. “Se un oggetto è ridotto alla sua funzione, è un cadavere”, disse. Poi lasciò ai ragazzi un piccolo augurio, che personalmente non ho mai dimenticato. “Costruite la vostra tradizione personale”, disse loro. Una raccomandazione a coltivare i segni che contraddistinguono la sensibilità di ciascuno e poi a lavorare perché questa predisposizione prenda la solidità di una tradizione. Ma una tradizione libera, personale, capace di sorprendere il mondo.
Sorprendere, un po’ come ha fatto lui per tutta la sua vita. Quando progettava un oggetto la sua prima preoccupazione era quella di lasciare un segno imprevisto sulla scena della vita quotidiana di chi poi lo avrebbe comperato. Gli interessava comunicare allegria, spiazzando con simpatia i destinatari delle sue creazioni. Non progettava con la supponenza di chi vuole dettare nuovi stili o nuove visioni; al contrario progettava come un amico a cui premeva accendere scintille capaci di dar un gusto diverso anche alla necessaria routine quotidiana. Voleva che i suoi oggetti divertissero, accendessero la fantasia, fossero come delle presenze capaci di sprigionare una loro magia.
Ci mancheranno la sua leggerezza, la sua amicalità, la sua libertà. Durante un incontro a Casa Testori si era lascito andare a questa confessione: “Quando uno ragiona anche su quello che si fa come progettista, alla fine si arriva sempre sull’impianto stesso della vita. Rimangono fisse poche parole molto semplici e stabili: la vita, la morte, l’amore, il dolore. È la profondità del senso del vivere che entra in gioco”. Diceva di lavorare per tracciare il profilo di un’utopia comune. E quando gli chiesi che cosa fosse per lui questa utopia rispose che era restituire dignità e profondità allo spazio dell’abitare. “Una casa è chance di autocreatività. Ma per fare una bella casa uno deve capire l’interno di se stesso. Una persona è un’entità importante in sé. E merita di avere una casa che la rappresenta”.