L’aggressione parigina ad Alain Finkielkraut, filosofo, giornalista e scrittore francese di origini ebreo-tedesche durante una manifestazione dei gilet gialli, continua a far discutere. Continuano a comparire nuovi video, nuovi testimoni oculari dell’evento, nuove raffinate interpretazioni editoriali a mezzo stampa. Fatto sta che Finkielkraut è stato aggredito e insultato con toni banalmente antisemiti, essendone nota la provenienza familiare ed essendone risaputa e sovente disprezzata la presenza mediatica e televisiva. Nella semplificazione comune, insomma, bersagliare il filosofo di professione, il chiacchierone prezzolato, ebreo, in un Paese che col proprio antisemitismo culturale non sempre ha saputo far pace, era un passaggio semplice, agevole, quasi obbligato.



Poco interessa dissodare la veridicità degli insulti a Finkielkraut, che peraltro è stato spesso al centro di controversie simili, molto meno discusse e strumentalizzate. Conta qui piuttosto tratteggiare la dinamica di contesto entro cui in Francia avvengono sempre più spesso querelles di questo tipo, all’insegna di un livello di violenza di piazza che fruga nelle frustrazioni, nelle paure e negli slogan di un popolo ormai a corto di grandeur.



E senz’altro conta verificare come proprio le controverse tesi di Finkielkraut possano aiutare a spiegare cosa stia succedendo in Francia e, in forme diverse, in tutta Europa.

La protesta dei gilet gialli arriva in Italia dietro l’amplificazione falsata del volerne ricavare a tutti i costi modelli e consensi politici trasversali. Il populismo è il sintomo dell’attuale debolezza dell’Unione Europea. Le agitazioni francesi poco hanno a che vedere col Maggio universitario di oltre cinquant’anni addietro: sono partite come manifestazioni, dalle piattaforme programmatiche tutto fuorché esaltanti, contrarie agli aumenti della benzina e del comparto energetico, alla detassazione integrale del lavoro straordinario, al mancato aumento dei minimi salariali.



Sono diventate un Cerbero a più teste perché si sono nutrite dell’omologo veleno che girava in tutta Francia. Il governo Macron, politico votato in pompa magna in chiave antinazionalista e antilepenista, prometteva di accontentare tutti: dalla sinistra che coi socialisti era lontana da qualsivoglia ipotesi di vittoria, alla destra che voleva libertà di mercato, incoraggiamento agli investimenti, semplificazione indiscriminata. Quando un programma politico è però un libro dei sogni vestito di buone intenzioni ma nudo di addentellati concreti, l’euforia dei molti rischia di diventare l’insoddisfazione di tutti: i lavoratori al palo di un impoverimento diffuso, chi il lavoro lo ha perso e si sceglie nemici di comodo sulla strada della sua dignità, il blocco tradizionale delle forze antigovernative.

Non si possono capire i gilet gialli se non si torna indietro con la mente alla rivolta del 2005, nei sobborghi francesi e nei quartieri periferici delle grandi città (le banlieues). Lì, c’era una generazione di giovani franco-arabi, già munita del diritto di cittadinanza, che però non accedeva ai benefit socio-patrimoniali tipici della cittadinanza (dal reddito alla rispettabilità sociale). Le infiltrazioni estremistiche religiosamente connotate avevano limitato riscontro: era una generazione, forse anche di musulmani, ma alle prese con la natura spersonalizzante della secolarizzazione cittadina. Si cercava agio, conforto abitativo e personale, si voleva far breccia nella religione civile dello Stato, ma non allo scopo di dovervi per forza portare istanze confessioniste islamiche, anzi spesso aborrite.

I killer al servizio del terrorismo che hanno colpito in Francia negli ultimi anni, lo dimostra chiaramente la loro minima biografia comune, erano soggetti radicalizzati da poco tempo e alle prese invece con il molto più sperimentato disagio suburbano: piccoli precedenti, seduzione dei nuovi social, sradicamento da un domani invisibile e da uno ieri mai davvero conosciuto.

Lo scontento del benessere non raggiunto che infiammava il 2005 si specchia, oggi ai picchetti di Parigi, nello scontento del benessere non mantenuto. Pur nel contesto di una critica feroce ad obiettivi non sempre messi a fuoco (quasi come il Charles Péguy che proprio lui ripresentò al grande pubblico), Finkielkraut ha saputo leggere nel faticoso stallo dei giorni nostri, ne ha descritto le nevrosi e le esaltazioni, ne ha precorso, da Cassandra inascoltata, alcuni disvalori recenti.    

La crisi della modernità spara addosso a tutto e tutti, tranne che alla pre-modernità: l’antisemitismo è un frutto amaro che prescinde da ogni considerazione sulla condotta politica di Israele o sull’analisi del Medio Oriente. Rischia di diventare solo l’esempio strisciante di un’offesa elevata a caratteristica del discorso politico.

È chiaro che in questo contesto l’antisemitismo coaguli forme d’odio sociale altrimenti irriducibili. È stato caldeggiato dal revisionismo sull’olocausto che lo ha spesso coltivato apertamente, lo ha introiettato ad altri fini anche una parte della sinistra politica radicale che si riconosce in istanze filoarabe e che fa dell’antisionismo il fronte simbolico dell’opposizione ai governi conservatori israeliani. Ancor più, dietro la patina antistorica di questa intolleranza, può trovare facile sbocco una società disgregata che usa il nemico nella speranza di amplificare la propria voce (immigrati, diversamente credenti, nonché sinceri credenti comunque denominati, col loro kit di valori estraneo alla logica mercificata del consenso propagandistico).

Riscoprire lo spettro di un pregiudizio così vecchio, sedimentato, soffiandoci sopra, rassicura in definitiva sulla possibilità che un nemico comunque esista ed è un nemico, sorprendentemente, che si può annientare, su cui ci si può sfogare. Non è il potere dispotico, non è il potere militare, non è il potere criminale: quelli li vuol combattere una quota sempre minore di attivisti, intellettuali, cittadini. L’antisemitismo consente di eleggere a nemico una comunità di persone, che può essere additata a piacimento: è questo metodo che può contaminare tutto e nei fatti alligna senza distinguere bersaglio, ma trovandone volta per volta i più deboli e scoperti.