Di recente l’ex presidente uruguayano Pepe Mujica ha rilasciato una dichiarazione sulla difficile situazione venezuelana spiegando come l’imposizione della “democrazia” puzza sempre e comunque di petrolio, e avvisando che “forti venti di guerra” si muovono all’orizzonte, e che la guerra (sia essa militare, economica e ideologica) danneggia fino a distruggere le persone prive di responsabilità.



Il discorso di Mujica, il presidente che girava su un maggiolino Volkswagen senza scorta, idolo della sinistra europea di inizio millennio che guardava con nostalgia di cheguevarismo all’America Latina, è stato fortemente ignorato in Europa, così come ignorato è stato la quasi totalità del pensiero degli analisti e intellettuali latinoamericani.



Si è anche espresso recentemente a riguardo Gianni Minà, le cui dichiarazioni meritano ascolto per la sensibilità da sempre messa in campo sull’America Latina, diversamente da quanto accade a molti improvvisati portatori di interessi convenzionali e astorici, per prima gran parte della classe politica di questo nostro disastrato paese. Parlo dei “civil servant” che da mesi preferiscono proporre eventi e campagne contro il Venezuela di Maduro piuttosto che affrontare seriamente il dibattito politico interno al nostro sistema paese.

Ciò che accade in Venezuela è una mossa a scacchi di un nuovo ordine globale, i cui effetti vediamo palesemente ogni giorno: gli Stati Uniti che vogliono mantenere salde le proprie posizioni imperiali e un altro attore, in mezzo a dinamiche entropiche multipolari, che è la Cina di Xi Jinping, un ordine orientale, per sua natura rimasto nella storia poco aggressivo, che oggi invece si arma e soprattutto ha bisogno di nuove fonti energetiche.



Maduro, erede di una storia antiimperialista come quella chavista, sa che cedere alla penetrazione statunitense metterebbe fine al socialismo siglo XXI cominciato dal suo predecessore e che ha consentito un nuovo riposizionamento della regione nel panorama mondiale.

Questo percorso, cominciato nei primi anni 90, porterà Chávez a essere eletto con larga maggioranza nel 1998 (e da lì seguiranno molti appuntamenti elettorali). Parliamo dunque di oltre 20 anni di storia, di un sistema che ha costruito una sua clientela politica sulle logiche dell’ampliamento dello Stato e dell’esercito e che ha incluso alla partecipazione politica schiere di marginali anche attraverso i proventi del petrolio e del superciclo ad esso collegato.

Per questa ragione Maduro, lo scorso maggio, è stato rieletto con il 68% dei consensi. Attribuirgli la qualifica di  “dittatore”, come si fa per travisare la verità storica, è un atto indegno.

Cito, perché la dichiarazione è certamente più cristallina di quanto io stessa riuscirei a dire, le parole  di Alessandro Plateroti, vice-direttore del Sole 24 Ore: “abbiamo avuto i rapporti con (…) la dittatura di Pinochet, in America Latina abbiamo avuto rapporti con i peggiori dittatori e nessun Parlamento italiano si è mai sognato di dichiarare l’illegittimità delle elezioni. (…) Non si può tirare la coperta della sovranità dei Paesi e del diritto internazionale solo perché gli Stati Uniti combattono una nota e ventennale guerra per il controllo del petrolio contro il Venezuela. E non mi sta bene”.

La Cina ha prestato recentemente al Venezuela 63 miliardi di dollari, e il petrolio su cui questo martoriato paese appoggia la propria sovranità è l’unica e vera ragione reale dell’interesse che oggi si muove verso la sua condizione “democratica”. Basta infatti verificare chi ha riconosciuto Guaidó come presidente legittimo del Venezuela rispetto ai paesi che non l’hanno fatto, per capire come si muove la geopolitica oggi.

Difendere l’interesse dell’Occidente e dunque del suo centro egemonico è ragionevole. Con la Cina sono stati commessi errori epocali e la mancanza di dibattito europeo su questa globalizzazione spinta ha finito per danneggiare enormemente i nostri mercati e ancor più un sistema privo di innovazione come quello italiano (non a caso il più brutalmente colpito dalla recessione). Questo però non significa che “venti di Vietnam” debbano soffiare sul Venezuela e che le periferie del mondo debbano sempre e comunque essere le vittime privilegiate, nella guerra fredda come oggi, di scontri internazionali predatori e fortemente dannosi per le popolazioni che lì vivono, umiliate nei loro assetti istituzionali e lasciate morire di fame. Questa dinamica ha alleati forti: la crisi economica, la caduta del prezzo del greggio, i forti errori commessi dall’amministrazione Chávez e Maduro nell’affrontare la diversificazione economica del Venezuela. Di contro abbiamo il congelamento delle riserve venezuelane all’estero, l’embargo economico, gli aiuti centellinati e mirati per rendere manifesto il fallimento di quello Stato.

Diciamolo chiaramente: l’America Latina non può più essere il cortile di casa da cui prendere risorse e dove gettare la spazzatura. E questo dovrebbe valere per tutti i Sud del Mondo, schiacciati sempre più dalla diseguaglianza e vessati dalle ingiustizie, dalle guerre e dalla fame che brutalmente li massacrano.