“Il porre e porsi domande – ha scritto Giuseppe Pacella nella sua edizione dello Zibaldone – fa emergere dubbi e contraddizioni che, lungi dall’essere soffocati, sono vissuti fino in fondo. E questa è la grandezza del pensiero leopardiano”. Come dare torto a un giudizio simile di fronte alle domande contenute nelle poesie dei Canti, nella prosa delle Operette morali e nei pensieri dello Zibaldone?



Nonostante l’idea comune di un poeta pessimista, di un filosofo materialista e di un uomo disperato, in quei versi e in quelle riflessioni risplendono piuttosto la “sensibilità” e la “virtù” di “un fior gentile […] che il deserto consola”. Infatti, anche Giacomo Leopardi, come la sua “odorata” e “innocente” ginestra, si piega “sotto il fascio mortal” non “codardamente”, accontentandosi del limite della realtà, né “con forsennato orgoglio”, come l’uomo che si crede signore della terra, ma facendosi coraggiosamente portavoce del “nostro stato”, “vile” e “alto” a un tempo.



E questa “sensibilità”, lungi dall’essere soffocata da risposte negative, è come una bomba pronta ad esplodere, sia in versi, che in prosa, in ogni fase del cosiddetto “pessimismo” leopardiano: “Ahi ahi” grida ne Il sogno del 1821 “che cosa è questa/ che morte s’addimanda?”; e nel 1824, nelle Operette morali, Leopardi pone la stessa domanda alla Natura: “a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?”; poi nell’aprile del 1826, nello Zibaldone ritorna su questa “contraddizione” fra vita e morte, definendola “misterio grande”; e due anni più tardi, il poeta di Recanati riafferma il paradosso nei versi di A Silvia: “O natura, natura,/ perché non rendi poi/ quel che prometti allor? perché di tanto/ inganni i figli tuoi?; infine, nei Canti del 1835, ancora di fronte alla morte, grida con forza: “Natura umana, or come,/se frale in tutto e vile,/ se polve ed ombra sei, tant’alto senti?”.



Insomma, tutta l’opera e la vita di Leopardi sono attraversati da un filo rosso su cui si intrecciano le domande comuni a ogni uomo: quelle sul significato dell’esistenza nostra e degli altri, quelle sul fine dell’amore e della morte, quelle sulla sproporzione fra la pienezza che la natura nostra ci promette e l’incapacità dell’intera realtà a compiere quel destino. E’ pessimismo questo? Domandiamoci: materialismo? O nichilismo?

Con buona pace del critico sostenitore dei vari -ismi leopardiani, siamo di fronte a un poeta che eleva l’anima all’Infinito, a un pensatore che rifugge ogni riflessione sistematica, a un uomo che grida con veemenza il dramma di ogni uomo in ogni tempo.

Per tutte queste ragioni, Leopardi risulterebbe fin troppo stretto fra i ricami degli -ismi critici. Né per questo vogliamo certo negare che qualche toppa abbia provato lui stesso a farla, ora incolpando dell’infelicità universale i suoi tempi, ora scagliando la pietra contro la Natura, come leggiamo in gran parte delle Operette morali e a tratti anche nei suoi Canti.

Tuttavia, persino quando abbiamo di fronte il Leopardi più pessimista, gli -ismi non valgono in senso assoluto, ma quelle domande restano palpabili e incidenti. Anzi, preferiamo piuttosto dire che, proprio quando ci appare davanti il Leopardi più negativo, l’intensità di quegli interrogativi risplende in modo ancor più evidente, manifestandosi non più in domande nel senso morfo-sintattico del termine, ma nella facoltà di “sentire infinitamente”, di provare “un piacere infinito” e “perfetto”, di cui l’uomo sarebbe finalmente “felice”.

In questa drammatica tensione a un “infinito terreno” consiste tutta la grandezza di Leopardi, anche quando non si esprime in domande esistenziali. Tale risulta il valore della “ricordanza”, che rimanda a una speranza passata nei versi di Alla luna: “E pur mi giova/ la ricordanza, e il noverar l’etate/ del mio dolore. Oh come grato occorre/ nel tempo giovanil, quando ancor lungo/ la speme”; tale è il valore del dolore, che contiene “il piacere dell’infinito”, corrispondendo alla fine di un desiderio infinito: “Nella mia prima età” scrive nella Sera del dì di festa “quando s’aspetta/ bramosamente il dì festivo, or poscia/ ch’egli era spento, io doloroso”; tale è il valore della disperazione, scaturendo anch’essa dall’idea dell’eterno, come leggiamo in A se stesso: “Or poserai per sempre,/ stanco mio cor. Perì l’inganno estremo,/ ch’eterno io mi credei”; tale ancora sono i valori della donna e della bellezza, che rimandano rispettivamente il poeta a “l’amorosa idea” di Aspasia e a una “dell’eterne idee” di Alla sua donna; tale sono i significati di Amore e Morte, essendo l’uno “quella/ nova, sola, infinita/ felicità che il suo pensier figura” e l’altra il luogo di quella “quiete”, di quel “porto/ dinanzi al fier disio”; tale infine è il senso dell’amicizia, che ha il dovere attraverso l’affetto di sostenersi contro il limite della realtà, come leggiamo nel Dialogo di Plotino e Porfirio, o in questi versi della Ginestra: “Nobil natura è quella/ che a sollevar s’ardisce/ gli occhi mortali incontra/ al comun fato […] il mal che ci fu dato in sorte […] e incontro a questa/ congiunta esser pensando,/ siccome è il vero, ed ordinata in pria/ l’umana compagnia,/ tutti fra se confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia/ con vero amor, porgendo/ valida e pronta ed aspettando aita/ negli alterni perigli e nelle angosce/ della guerra comune”.

Insomma, non solo gli -ismi si dissolvono di fronte alle domande di Leopardi, ma anche di fronte al suo “pessimismo”, essendo a sua volta tutto rivolto alla “soddisfazione di un desiderio illimitato”.

Per questa ragione, non pessimista, materialista o nichilista, Leopardi assomiglia più a un verde guerriero, che ha scelto “alle offese/ dell’uomo di armar la destra”, continuando tutta la vita a ricercar l’“infinità”, come la sua “odorata ginestra,/ contenta di deserti” e d’“abbellir l’erme contrade”.