Il lungo ’68: è questo il tema del nuovo numero di Lineatempo dedicato alla parabola di una stagione nata da un desiderio autentico di liberazione umana e sociale e finita nella radicalizzazione ideologica che ha tradito la promessa iniziale e di cui il ’78 almeno in Italia è come il simbolo.

Che si tratti di fallimento è sempre più evidente riflettendo sul tempo presente. A cinquant’anni dal ’68 e dal suo slogan “vogliamo tutto”, con cui i giovani in rivolta mettevano in discussione tutti i tipi di istituzione politica, familiare, educativa, religiosa, assistiamo da più parti ad una crisi del soggetto che è il marchio di fabbrica di una omologante e spersonalizzante società dei consumi, dominata dalla razionalità strumentale, che caratterizza la nostra epoca. Proprio nella proliferazione della nuova “industria culturale” che suscita bisogni e determina sempre nuovi consumi di una massa passiva e informe; nella pervasività esercitata dalle nuove tecnologie, nonché nella reificazione imperante che tende a ridurre nuovamente tutti ad una sola dimensione, deve leggersi il fallimento di un’intera generazione.



Ciò che emerge del movimento studentesco visto nel lungo periodo è la sua incapacità di vivere all’altezza della sfida lanciata sin dall’inizio degli anni Sessanta alla società moralista, formale e borghese del dopoguerra. Le nuove generazioni cresciute, come ha scritto Hobsbawm, negli anni della più rapida trasformazione economico-sociale della storia hanno finito per scagliarsi contro i loro padri e il loro “dio morto”, come cantava Guccini, scegliendo però la strada del disimpegno da se stessi e dal proprio cuore, delegando la soluzione dei problemi politici alle utopie e alle ideologie impersonali che hanno finito per “sacrificare” l’io e la sua esistenza, sognando, per parafrasare Eliot, “sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono”.



Lo sviluppo del movimento del ’68 ha mostrato pertanto, da tutti i punti di vista, l’incapacità di realizzare una positiva emancipazione a causa dei presupposti culturali di fondo. La maggior parte dei “sessantottini” trarrà infatti ispirazione dalla scuola di Francoforte, che, attorno alla metà del Novecento, raggruppava tutta una serie di studiosi critici della moderna società industriale, caratterizzata dalla tecnica vista come apice dell’Illuminismo e della sua logica di dominio razionale del mondo. Ad un tale “sistema” essi contrapponevano l’ideale rivoluzionario di un’umanità futura libera e disalienata attraverso l’instaurazione di modelli utopici che tanto seguito avranno nel movimento studentesco.



L’ideologia quale ultima tappa del movimento studentesco ha avuto un esito drammatico proprio in Italia con la tragica vicenda di Aldo Moro. Lineatempo ha dedicato allo statista cattolico uno speciale ricordo attraverso la poesia di Mario Luzi Acciambellato in quella sconcia stiva, composta qualche mese dopo l’assassinio. L’incipit – “Acciambellato in quella sconcia stiva, crivellato da quei colpi” – rivela l’inumanità di chi ha agito in nome di un’idea e della sua ferrea logica tesa a spiegare in modo oggettivo il passato e a prevedere il futuro, e che, nella misura in cui esalta l’Umanità, annienta l’uomo in carne e ossa.

A differenza dell’utopismo, i dissidenti dell’Europa orientale, e in particolare di una Cecoslovacchia che aveva vissuto il “suo” ’68, hanno scelto una forma di contestazione al Potere totalitario sulla base di un programma di testimonianza morale ed esistenziale che si esprimerà nel movimento Charta 77. In tal modo, Havel, Jan Patočka e altri dimostreranno il valore di una contestazione tradotta in prassi al servizio della verità, che impegnerà i dissidenti in una responsabilità personale capace di spezzare alla radice quell’unità tra essere e dover essere retta sulla menzogna. L’ortolano di Havel che toglie dalla sua vetrina il cartello recante la scritta “Proletari di tutto il mondo unitevi!” con le sue sole forze ha compiuto, infatti, un gesto decisivo con cui afferma la propria dignità e realizza la propria libertà, frantumando quel Potere oggettivo e impersonale che si nutre del nichilismo. Come ha scritto la Arendt “il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più”.

Ecco, dunque, dove leggere il fallimento del ’68: nella concezione antropologica astratta mutuata dalle scienze sociali, incapace di cogliere nell’uomo quel soggetto dotato di singolarità, originalità e irripetibilità tipici della persona in quanto relazione costitutiva con la realtà e con la sua radice ultima. Il fallimento dell’ideologia, a tanti anni di distanza, ha lasciato tuttavia un soggetto in crisi, ridotto nel desiderio e incapace delle certezze morali più elementari; una crisi dagli effetti sempre più dirompenti, al punto che il Papa ha parlato a tal proposito di “cambiamento d’epoca” e che già Giussani a metà degli anni Ottanta, nel momento in cui notava che “non c’è più nessuna evidenza se non la moda”, intuiva essere l’ethos di un tempo nel quale si stava per entrare.

Da dove ripartire, dunque? Già uno dei maestri della scuola di Francoforte, Max Horkheimer, alla fine della vita osservava con coscienza critica le contraddizioni e i limiti di un’ideologia che finiva col creare nuovi miti. Al suo posto, il grande teorico invocava la nostalgia del “totalmente Altro”, capace di “rendere l’uomo consapevole che è un essere finito”. Per Horkheimer Dio tornava ad essere lo stimolo ad un’azione nella quale l’uomo si mostrava per quello che era nella sua realtà, prefigurando un itinerario alternativo per la sua autentica liberazione; itinerario seguito da chi al comunitarismo fondato sull’autodeterminazione, le cui conseguenze sono visibili nell’attuale “società liquida”, ha saputo opporre e incarnare i versi di Eliot: “non esiste vita senza la comunità. E non esiste comunità se non è vissuta in lode a Dio”.