Per gentile concessione della casa editrice Àncora, pubblichiamo l’introduzione di Marcello Farina al libro su Angelus Silesius di Francesco Roat.
Molti anni fa, quasi allo scadere del ventesimo secolo, poco prima di morire, il grande teologo Karl Rahner (1904-1984) dichiarava in un’intervista che “il cristianesimo del nuovo millennio o sarà mistico o non sarà”.
Quasi una profezia, si potrebbe dire, che si sta avverando, se si riconosce la grande e multiforme richiesta di spiritualità che fiorisce in tutto il mondo, presso tutte le culture e le religioni del pianeta terra. Da esse oggi fioriscono contributi di grande bellezza che non possono lasciare indifferenti le donne e gli uomini del nostro tempo, consapevoli sempre di più che molti sono i modi per giungere alla verità di se stessi e delle cose.
Ci si rende conto, sempre di più, che la vita spirituale è soprattutto “esperienza”, non “dottrina”, ricerca di “pienezza”, non selezione di “parte”, “interiorità” abbracciante, piuttosto che “esteriorità” che separa. Come scrive Raimondo Lullo: “L’Amico diceva all’Amato che molte erano le vie per le quali veniva al suo cuore e si mostrava ai suoi occhi, e molti i nomi con i quali lo chiamava la sua lingua; ma l’amore con cui lo faceva vivere e morire non era che uno, uno solo” (Raimondo Lullo, Il libro dell’Amico e dell’Amato, n. 90).
Non è, perciò, una forzatura chiamare “mistica” questa “nuova stagione” dello spirito umano, ricca di testimonianze di un fecondo passato, ma a suo modo anche originale, più ecumenica, più universale, capace di valorizzare personaggi ed esperienze ormai cosmopolite.
Anche lo “scomodare” la storia della mistica diventa, allora, un’operazione feconda, che rimette in circolo testimoni privilegiati di un percorso che le donne e gli uomini hanno compiuto nel tempo, vero “oceano infinito”, il cui fondo si allontana a misura che si avanza, la cui ampiezza si estende senza fine.
Francesco Roat vi partecipa con questo suo testo dedicato a uno dei più grandi mistici di tutti i tempi, Angelo Silesio (1624-1677), del quale presenta il capolavoro Il pellegrino cherubico, indagandone con perizia e intelligenza l’itinerario spirituale e mettendone in evidenza la straordinaria “modernità” nell’approccio al cuore di ogni ricerca umana qual è il mistero di Dio. La sua è una vera e propria sfida: che cosa comporta, oggi, parlare di Dio, una “sillaba sbiadita”, un nome, il più sovraccarico del linguaggio umano? Silesio, dal canto suo, scrive una sorte di poema in versi, come per affidare alla poesia il compito di dire l’indicibile: “Va’ là dove non puoi! Guarda dove non vedi! Dov’è il silenzio ascolta: è lì che parla Dio”.
Francesco Roat segue appassionatamente l’esortazione estrema del mistico inoltrarsi nella dimensione del puro essere, a “diventare l’Essenza, ovvero essere nell’Essere, essere l’Essere, andando oltre l’alterità dell’Essere, cioè l’alterità di Dio”. Egli accompagna a percepire che la “sillaba inflazionata” di Dio, perché troppo spesso citata come ovvia, è in realtà la più sublime, la più distante e remota, la più intima e prossima, la più bersagliata e la più contesa, la più scheletrizzata e inaridita, la più aperta e promettente, la chiave di volta e la cifra risolutrice di tanti enigmi, anche se incognita e sfuggente.
Tutto avviene nel linguaggio delle donne e degli uomini, tutto passa attraverso la loro immaginazione. Tutto si compie nell’“esperienza”, coltivata, nella libertà e nella meraviglia di avere a che fare con l’“Oggetto immenso” del sé e di Dio. Infatti Dio stesso non è il nome eufemistico per mascherare un destino cieco e inesorabile, ma il destino della pienezza e del compimento. Del resto, come scrive Silesius, “un abisso chiama l’altro” e soggiunge: “Dov’e la mia dimora? Dove io e tu non siamo. / Dov’e il mio fine ultimo, cui giunger devo? / Dove alcun fine si trova. Dove mi volgerò quindi? / Io devo ancora, oltre Dio, a un deserto tendere” (Libro I, 7). Si tratta di una grande emozione.
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Francesco Roat, “Beatitudine. Angelus Silesius e Il pellegrino cherubico”, Ancora 2019