Oportet ut scandala eveniant. Gli scandali fanno bene, aiutano a ridestare non solo le coscienze, ma anche il pensiero. I fatti tornano a parlare e la voce della dittatura del pensiero non riesce più a svuotarne la forza d’urto. La lettera di Macron agli europei urla, per via indiretta, una verità macroscopica: il sogno europeo si è trasformato in un incubo e l’Europa non esiste più.
Non è, innanzitutto, il documento della nuova Europa, ma è la presa d’atto di un giro di vite storico che ha decostruito, senza risparmiare la necessaria brutalità, il vitello d’oro innalzato dagli ideologi dell’eurocrazja.
L’Europa “non ha saputo rispondere alle esigenze di protezione dei popoli di fronte alle grandi crisi del mondo contemporaneo”. Giusto enfatizzare il plurale: le crisi, non la Crisi. Il mondo si è, da un lato, regionalizzato, dall’altro, iperglobalizzato. La scuola economica francese, guidata da Perroux, aveva intuito questo punto già circa sessant’anni fa.
Le rampogne del presidente francese all’indirizzo dei presunti bugiardi e irresponsabili indica chiaramente, se mai ve ne fosse bisogno, che c’è una vistosa traccia di auto-inganno nel suo ragionamento: da un lato, l’Europa non ha saputo fare; dall’altro, è colpa degli altri. Ma l’auto-inganno è ineliminabile nella narrazione di chi vuole proporre un nuovo Rinascimento europeo. Il Rinascimento, come anche l’ultimo lavoro di Cacciari ha vigorosamente dimostrato, non ha niente a che vedere con la trasparenza dei buoni sentimenti e della chiarità di mente e cuore. E’ un dramma a cielo aperto, che ingolfa la storia e storna l’attenzione degli uomini dai grandi cieli ricchi di insipido afflato progressista, per ricondurli nel solco della vita.
L’Europa cede su questo tornante storico. Non serve il Rinascimento, non serve prendersela infantilmente con le presunte “manipolazioni”, il re è nudo da decenni, e il “sovranismo” ha pure le sue ragioni, e ammettere ciò implica avere onestà intellettuale. E’ un gioco di reattività storica e incapacità culturale di fronteggiare le crisi, appunto al plurale, come già sapeva uno storico del calibro di Toynbee. Ciò che non fornisce risposte in grado di replicare età dell’oro prossime venture, finisce nella palude. Fu la risposta di Craxi a chi vagheggiava un socialismo metafisico, non vincolato alla necessità di fornire risposte ai bisogni dei lavoratori e degli uomini del proprio tempo: un totem divorato dal suo tabù.
“Dov’è l’Europa? Che fa l’Europa?”, si domanda con approccio eccessivamente retorico Macron, ma le domande pesano, eccome. “Libertà, protezione, progresso” somigliano alla trinità laicista liberté, egalité, fraternité, di cui i gilet gialli stanno facendo strame, avanzando sullo stesso terreno di quelle moltitudini, che non sono inquadrabili nelle categorie ideologiche novecentesche. E questo è un fatto. Macron deve, però, ignorarlo, perché l’auto-inganno è terapeutico per la dirigenza europea e per chi vuole giocare le carte su un tavolo ormai affollato di fantasmi.
Il vero tema politico è un altro: ammesso e concesso che il nazionalismo sovranista non abbia risposte, cosa impedisce all’establishment di integrare ciò che fa dialettica per progredire autenticamente su un terreno superiore di crescita e sviluppo dei popoli? Perché il “progresso” non si proclama con la ricetta umanistica e con la retorica della libertà, più solida in quanto ancorata alla “protezione”. Sono truismi, si direbbe nel gergo dei logici, ossia sentenze affermate senza dimostrazione alcuna: A=A, perché lo dico io. Invece, in questo caso, è la negazione di questa specifica realtà europea che emerge e spariglia le carte.
Una conferenza in cui tutti parlano con tutti per affondare la lama nella carne dell’avversario più congeniale non serve alla causa. Serve, casomai, iniziare a pensare, come propose a suo tempo un intelletto rigoroso e lucido come Guarino, di riformare, anche radicalmente, i trattati, perché la realtà è più avanti e sta incalzando l’establishment. E, quando la realtà incalza, alla fine, scalza.
Il documento di Macron è di particolare rilievo, dunque, perché, a poche settimane dalle elezioni europee, sta proclamando, seppur con una cifra di auto-inganno, che l’Europa, così com’è, non è più una realtà storico-politico-istituzionale in grado di reggere gli urti delle crisi storiche.
Per superare una crisi, c’è solo un modo: anticiparla. Essere “fieri e lucidi” su ciò significa affermare che “l’umanesimo europeo”, di cui, anche storicamente, si fatica a cogliere la fisionomia, è l’ultima sponda dei perdenti. E che, sia detto con chiarezza, fierezza e lucidità, io sono italiano e divento europeo, se – e solo se – l’Europa parla la lingua del “tutto nel frammento”. Perché, se così non è, la proposta non ha alcun peso.
Si parli, dunque, la lingua della dialettica e si avanzi, anche per tentativi ed errori, sulla via della Renovatio Europae. Essa prevede l’et-et, l’integrazione delle dissonanze, per giungere a una sintesi superiore. L’aut-aut parla per triadi – libertà, protezione, progresso – e, alla fine, il Leviatano è l’unico mostro totalitario a dominare la scena. Un film già visto, in replica sugli stessi schermi da più di cinque secoli a questa parte. In Europa. Era proprio l’età dell’“umanesimo europeo”.