La pubblicità della fiction “Il nome della rosa” aveva creato grandi attese: la storia, tratta da un romanzo che ha avuto un enorme successo, prometteva di raccontare non solo la vicenda principale dei delitti in un’abbazia, ma anche i numerosi excursus sulle eresie del Trecento, sulla rivalità tra imperatori e Papi e sulla disputa teologica. Sembrava che stavolta, a differenza del film del 1986, avremmo potuto davvero vedere con gli occhi quanto Umberto Eco scrisse su quelle pagine dense di un medioevo che era il suo vero mondo. “Il presente – sono parole dello scrittore – lo conosco solo attraverso lo schermo televisivo, mentre del Medioevo ho una conoscenza diretta”.



A giudicare dalla prima puntata, le perplessità sono più di una.

Buona l’idea di un inizio che contestualizzasse storicamente le vicende. Su sfondo nero leggiamo: “Anno Domini 1327. Ludovico di Baviera, futuro imperatore del sacro romano impero, proclama la separazione tra politica e religione. Giovanni XXII lo scomunica. Il papa francese si considera eletto da Dio con un potere assoluto sui sovrani e sui popoli. Il loro eserciti si scontrano in Italia”.

Però, subito dopo, la scena si apre su una battaglia in cui un giovane armato pronuncia parole in latino di fronte a un compagno morente. Quel giovane è Adso, ma rispetto all’Adso di Eco sono state fatte molte modifiche. Nel libro il padre, barone al seguito dell’imperatore, lo sottrae alla tranquillità del chiostro e, come scrive l’Adso narrante in prima persona, “ritenne saggio portarmi con sé perché conoscessi le meraviglie d’Italia e fossi presente quando l’imperatore fosse stato incoronato a Roma”. Il padre, occupato nell’assedio di Pisa, non gli impone la vita di campo, a tal punto che Adso gira libero per le città della Toscana. I suoi genitori, inoltre, si preoccupano della sua formazione teologica e pensano che questo girovagare non si addica a un adolescente votato alla vita contemplativa: per questo, proprio a Pisa, lo pongono al servizio di Guglielmo da Baskerville. Quanto di più lontano dall’immagine che ci restituisce la fiction: nel libro non c’è nessun rapporto conflittuale tra padre e figlio e l’incontro con il frate-maestro non è certo casuale. Perché questa modifica nel passaggio su pellicola? Forse era poco vendibile all’estero l’ennesimo prodotto tv che parlasse delle meraviglie d’Italia? O forse il vero Adso era poco intrigante per la curiosità del pubblico estero? Eppure così era un novizio del Trecento.

Altra cosa che un po’ dispiace è, sempre all’inizio della puntata, quanto spiega la voce narrante fuori campo di un Adso ormai anziano: “Giunto al termine della mia vita di peccatore, mentre declino canuto insieme al mondo, mi accingo a lasciare su questa pergamena testimonianza degli eventi mirabili e tremendi cui mi accadde di assistere in gioventù, sul finire dell’anno 1327”. L’incipit del libro era molto più profondo. Partendo dall’inizio del Vangelo di Giovanni (“In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio”), rifletteva sul fatto che nel tempo attuale vediamo la realtà attraverso specchi e per enigmi e la Verità “si manifesta a tratti nell’errore del mondo, così che dobbiamo compitarne i fedeli segnacoli, anche là dove ci appaiono oscuri e quasi intessuti di una volontà del tutto intesa al male”. Già dall’inizio il libro ci spingeva a riflettere sul presente, a non fermarci all’apparenza delle cose e, parlando di specchi e enigmi, anticipava con arguzia l’interno della biblioteca. Questa ricerca della Verità, che era parte integrante del monachesimo medievale e che si allungava come riflessione sul presente, e l’attenzione all’enigma, come chiave di lettura della realtà e dell’indagine dei monaci, sono una profondità di cui la fiction ci ha privati.

Analizziamo poi la figura di Guglielmo da Baskerville. Nella fiction lo si vede che vaga tra i poveri e abbraccia i lebbrosi. Nel libro la sua discesa in Italia aveva un fine ben più diplomatico: discutere con vari abati italiani per cercare un terreno neutrale e quindi adatto a un incontro tra delegazione francescana e delegazione papale, per disputare sulla Povertà di Cristo. Se l’incontro fosse andato bene, Guglielmo sarebbe stato il teologo imperiale a Avignone.

C’è poi la ragazza occitana. Nel libro compare solo quando, il terzo giorno, Adso entra da solo nella biblioteca e ne esce spaventato correndo nella cucina. Lì, in un buio rischiarato solo dalla luce della luna, tra gli odori delle spezie, vede questa fanciulla. Il libro di Eco riporta le parole testuali che ella avrebbe pronunciato al novizio: “Tu sei giovane, sei bello…”. Volgare italiano, quindi, non occitano. I due ragazzi non hanno incontri prima di arrivare all’abbazia, Adso non esce periodicamente dall’abbazia per andare a trovarla. È proprio quell’unico incontro, così inaspettato, in una dimensione quasi ultraterrena (il mistero, il chiaro di luna, gli aromi inebrianti) a lasciare un segno decisivo nel cuore del giovane. L’unica nota di merito della fiction è l’aver dato alla ragazza le stesse caratteristiche descritte nel libro: pelle chiara, occhi color dell’acqua, capelli porpora e al collo una collana di pietruzze. Ma la televisione sembra averci privato della magia e della suspence dell’incontro.

Per quanto riguarda la narrazione televisiva, vediamo che gli eventi nell’abbazia sono spesso interrotti da scene di battaglie con stuoli di cadaveri, o donne completamente nude. Quanto di più distante dall’idea dello stesso Eco, il quale voleva che il lettore “diventasse mia preda, ovvero preda del testo e pensasse di non voler altro che ciò che il testo gli offriva. Un testo vuole essere una esperienza di trasformazione per il proprio lettore. Tu credi di voler sesso, e trame criminali in cui alla fine si scopre il colpevole, e molta azione… Ebbene io ti darò latino, e poche donne, e teologia a bizzeffe e sangue a litri… e a questo punto dovrai essere mio, e provare il brivido della infinita onnipotenza di Dio, che vanifica l’ordine del mondo”. Questa prima puntata priva noi fruitori, almeno per ora, del brivido e della novità di una simile esperienza.

Di questa fiction si ammirano il modo in cui sono stati ricostruiti i momenti della vita quotidiana dei monaci e la bravura degli attori. In particolare Stefano Fresi, che si è trovato nella parte del deforme Salvatore, forse una delle parti più difficili: nonostante ore e ore di trucco per diventare quasi irriconoscibile e delle battute in una lingua che era “tutte le lingue e nessuna” e che quindi non facilitava certo l’interpretazione, l’attore riesce a mostrare una espressività profonda, che non ha nulla da invidiare a nomi più noti del cast.

Confesso: ho letto Il nome della rosa di Eco ben due volte e tuttora mi capita di rileggerne delle pagine, come fosse qualcosa di prezioso che ha sempre qualcosa da rivelare. Riconosco quindi il grande merito della produzione e del regista di aver deciso di portare all’attenzione del grande pubblico un romanzo simile, ma l’esordio di questa fiction ha un po’ deluso. Ci aveva promesso che avrebbe finalmente raccontato con appropriatezza quel libro sul Medioevo e invece sembra essersi adattata alle solite esigenze di copione televisivo, tradendo diversi messaggi delle pagine di Eco.

C’è chi sostiene che, quando un libro viene tradotto sugli schermi, non abbia senso chiedersi quanto la pellicola sia stata fedele allo scritto, perché i due linguaggi appartengono a livelli diversi di espressione. È vero che i ritmi tra scrittura e film hanno esigenze diverse, ma se un film decide di tradurre in pellicola un determinato libro, prendendone anche il titolo, allora ci si aspetta che una certa fedeltà ci debba essere. Possiamo anche vedere questa fiction ignorando il libro, ma sarebbe una visione parziale.

Stiamo a vedere cosa succederà nelle puntate successive.