Miserere: “pietà di me, o Dio”. Pietà di tutti noi, per la forza della tua misericordia che dilaga nel mondo e risana da ogni male. Lavaci da tutte le nostre colpe, rendici ancora più bianchi della neve. Purificaci, Tu che solo puoi. Spazza via le ombre del sangue e della violenza, della presunzione egoista e della falsità. Donaci un cuore nuovo. Facci cambiare, spalancaci al bene: “nel tuo amore, fa’ grazia a Sion”, rialza le mura cadute della nostra povera Gerusalemme senza difese.
Erano le parole di questa supplica antica e tremendamente realistica a risuonare in tutte le chiese della cristianità nei momenti forti della Quaresima, in modo particolare nel venerdì della passione di Cristo. Dagli spazi della sacralità liturgica il salmo 50 rifluiva poi nelle piazze e lungo le strade percorse dalle processioni, che dovunque chiamavano a raccolta le comunità di fedeli: la vita si fermava per consentire a ognuno di ricalcare i passi a cui il Redentore aveva accettato di sottoporsi nel tragitto doloroso, ma allo stesso tempo glorioso, beneficante, che dalla morte sul patibolo della croce lo aveva portato fino al trionfo della Resurrezione.
Il salmo più di tutti gli altri “penitenziale” era la colonna sonora dei cortei che trasportavano in mezzo ai luoghi frequentati per i traffici e gli scambi quotidiani i segni e le figure evocative dei momenti più intensi attraverso cui si era snodato il sacrificio del Figlio di Dio fatto uomo. Chiunque poteva vedere, contemplare, commuoversi: l’arte e la musica servivano a incentivare il coinvolgimento del cuore e della memoria.
È lo stesso fenomeno che ancora oggi si rinnova quando il rituale della Via crucis cessa di essere un’artificiosa rappresentazione esteriore. O là dove la devozione popolare, attaccata alle forme espressive di una tradizione ricca di secoli, continua ad animare una teatralità religiosa che diventa la voce corale di un’intera collettività, come è regola diffusa in molti ambienti dell’Italia centromeridionale o, con speciale spettacolarità scenografica, nella Spagna andalusa, a Siviglia, a Granada e altrove.
Non occorreva essere esperti di latino per cogliere il senso di fondo del Miserere: c’era ben poco di intellettuale nel lasciarsi trascinare dentro il dramma del dialogo tra l’uomo mendicante, bisognoso di tutto, e la gratuità straripante dell’amore divino che si offre per venire in soccorso dell’uomo sofferente, piegato sulle ferite delle sue “ossa umiliate”. La preghiera collettiva aderiva alla realtà di un’esperienza verificabile molto semplicemente in prima persona, senza bisogno di filtri di spiegazioni esegetiche: la miseria limitata delle proprie capacità e la labile incostanza delle buone intenzioni facevano capire, da sole, che la salvezza poteva venire unicamente da qualcosa che era fuori e al di sopra di sé. Nella richiesta pressante del perdono ci si poteva identificare in presa diretta. Bastava rinnovarla nella sua sincerità, farla salire al cielo prendendola minimamente sul serio. Bastava ridarle l’impeto di un grido che diventava un grande atto liberatorio, un farsi piccoli, riuniti insieme, davanti allo sguardo di un Giudice supremo che, invece di condannare con durezza dall’alto, accoglie e redime.
Le melodie di rinforzo delle note musicali potevano assumere stili molteplici. Il Miserere si cantava all’unisono, ripetendolo a memoria, oppure a cori alternati, seguendo il contrappunto polifonico delle versioni più elaborate, quando il canto comunitario cedeva il posto all’ascolto che pungeva gli affetti e mobilitava i sentimenti della pietà individuale. Anche i compositori tecnicamente meglio attrezzati lungo i secoli si sono cimentati nella messa in musica del testo del Salmo 50, chiamati in causa da una committenza che passava attraverso le corti, la rete delle chiese e dei conventi, la trama fittissima delle confraternite devozionali e degli enti caritativi. Da Josquin des Prez e Orlando di Lasso fino a Palestrina, Gesualdo, ma anche Mozart, Bach, Perosi, decine e decine sono le versioni musicali venute ad accumularsi in ogni angolo dell’Occidente europeo e nelle terre di missione, dalla fioritura artistica del Rinascimento fino al nostro ultimo secolo.
In questa lunga catena di riprese, di imitazioni e di reinvenzioni originali, nel Settecento che vide consumarsi il genio creativo di Pergolesi e poi esplodere la fortuna di Mozart si inserisce con speciale risalto il contributo che alla musica sacra della Settimana Santa diede il meno noto, ma non meno significativo, Johann Adolf Hasse.
Nato nel 1699 nella Sassonia di tradizione luterana, fin da giovanissimo Hasse diede prova del suo talento come tenore, clavicembalista e compositore. Per completare la sua formazione, si trasferì presto in Italia, paradiso dell’arte musicale, e dopo un soggiorno a Napoli trovò impiego come maestro di cappella nell’Ospedale degli Incurabili di Venezia: un luogo dove le orfane e altre ragazze mandate dalle famiglie per essere educate venivano istruite nel canto e nel suono degli strumenti musicali, offrendo loro la possibilità di cimentarsi in un complesso orchestrale che, in competizione con le analoghe scuole di musica create in altre istituzioni caritative della Serenissima, attirava ascoltatori da luoghi anche lontani in occasione delle sue esibizioni periodiche.
Prima di lasciare la laguna per le peregrinazioni che lo avrebbero spinto in diversi centri dello spazio europeo alla ricerca di sempre nuovi sbocchi, come a Dresda, a Londra, a Vienna, proprio per il coro delle “zitelle” degli Incurabili di Venezia nel 1728 Hasse compose un Miserere a quattro voci, con accompagnamento di archi e “basso continuo”, che riscosse uno straordinario successo. Le cronache superstiti attestano con enfasi compiaciuta che “tutta la città correva a bearsi dell’esecuzione che sen facea principalmente ne’ mattutini dei tre giorni delle Tenebre”. E pare che per un trentennio si continuò a riproporlo, anche quando il suo inventore era ormai stato sostituito da nuovi maestri, garantendo la conquista di una celebrità che ne ha tramandato la fama fino ai giorni nostri. Hasse compose anche altri Miserere, insieme a varie messe, cantate sacre, oratori, mottetti, frammisti a musica da camera e a numerose opere ugualmente apprezzate in un vasto scenario internazionale.
Riascoltare in primo luogo il Miserere in do minore vuol dire aprire uno spiraglio sul lussureggiante paesaggio sonoro di un mondo in cui la musica era il registro in cui si riconosceva una società fatta di realtà sacre e profane che sapevano ancora intrecciarsi e rimodellarsi a vicenda: la cultura era patrimonio condiviso.
Dopo il maestoso esordio strumentale, il coro intona il solenne Miserere mei, Deus. Il basso vivacizza lo sviluppo del canto con il Tibi soli peccavi, che poi si distende nella trepida parte centrale chiamando tutte le voci a unirsi alternandosi fra loro, fino al sussulto potente del “Rendimi la gioia di essere salvato”. Con battute veloci il soprano e il contralto espongono gli ultimi versi del salmo. Ed è di nuovo sotto la guida del coro, che si fa ancora una volta impetuoso, che si passa dalla supplica per il bene da restituire alla città santa di “Jerusalem” al Gloria posto a sigillo conclusivo della grande preghiera comune. Il coro invoca clemenza in nome di tutti. Il dolore per il male commesso cede così all’attesa vibrante in cerca di risposta. Si fa domanda decisa, perentoria (“Sicut erat”), piena di ragionevole fiducia paziente: “Amen”.