André Kertész non è stato soltanto un grandissimo fotografo ma anche un personaggio che ha vissuto da protagonista un’intera stagione eroica della cultura, con un percorso espressivo ed umano di indubbio fascino. Nei primi anni vissuti a Budapest, dove era nato nel 1894 in una famiglia ebrea di ceto medio, aveva respirato le atmosfere della cultura mitteleuropea ma alla fotografia, che lo aveva affascinato fin da piccolo (è lui stesso a ricordare di averla scoperta sfogliando con lo zio alcune riviste illustrate), non aveva potuto avvicinarsi professionalmente visto che i genitori gli imposero studi di economia che lo portarono a un per lui sgradevolissimo lavoro in banca.



Non tutti i mali vengono per nuocere: nello stesso ufficio conosce Elisabeth, che poi sposerà e resterà la sua più fedele sostenitrice fin da quando, liberatosi di quel lavoro, andrà nel 1925 a vivere a Parigi per mettere a frutto la sua bravura di fotografo dilettante deciso a diventare professionista.

L’Ungheria che si lasciava alle spalle era un paese caotico che, dopo la sconfitta degli Imperi centrali, aveva reagito con una restaurazione monarchica e una linea politica reazionaria con forti venature antisemite che portarono molti fotografi di origine ebraica a rifugiarsi all’estero: Ghitta Carrel in Italia, Robert Capa (che ancora si chiamava Endre Friedmann) e László Moholy-Nagy in Germania, Nickolas Muray e pochi anni dopo Matin Munkacsi negli Stati Uniti. Nella Parigi dove era facile incontrare nei caffè Ernest Hemingway, Marc Chagall, Pablo Picasso, Man Ray, Piet Mondrian, Kertész porta la sua poetica di fotografo che si era aggirato di notte fra le strade di Budapest per cogliere nel gioco di ombre e luci la solitudine malinconica dei passanti, era entrato nei locali per cogliere il bacio fra due innamorati o l’espressione stanca di un ragazzo che si era addormentato da seduto.



A riguardarle, quelle fotografie scattate con una piccola fotocamera ICA 4.5×6 a lastre dotata di un obiettivo molto luminoso utile per cogliere situazioni poco rischiarate, potevano essere state scattate nel Quartiere Latino o in qualche bistrot perché, assieme all’amico Brassaï compagno di scorribande fotografiche notturne, il giovane André aveva già una poetica che si sarebbe mantenuta coerentemente legata alla freschezza e all’immediatezza della scoperta.

Per questa ragione abbiamo voluto intitolare “Lo stupore della realtà” la personale allestita dal 16 gennaio al 15 marzo negli spazi espositivi del Centro Culturale di Milano (Largo Corsia dei Servi, 4) che racconta in 90 opere il percorso creativo ed umano di questa straordinario fotografo che, come affermò Henri Cartier-Bresson, influenzò in modo significativo tutti coloro che ebbero a che fare con lui in quei dieci anni trascorsi a Parigi.

La mostra comprende tre nuclei di opere corrispondenti ad altrettante fasi del lavoro di Kertész: dagli esordi nella sua Budapest si passa per il periodo parigino, dove si afferma come grande autore, per arrivare al definitivo trasferimento negli Stati Uniti di cui acquista la cittadinanza e dove vive fra mille contraddizioni prima di ottenere il meritato successo internazionale con la personale organizzata nel 1964 al Museum of Modern Art di New York curata da John Szarkowski.

Proprio in virtù della coerenza stilistica che lo caratterizzava, nella mostra i tre gruppi di fotografie non sono stati nettamente divisi e talvolta si è preferito accostare immagini scattate in luoghi e tempi diversi per sottolineare come certe caratteristiche – l’amore per le riprese dall’alto, il piacere della composizione negli still life, la sottolineatura del contrasto fra luci e ombre – lo accompagnarono lungo tutto il suo percorso. Questo senza dimenticare la sua capacità di assorbire le atmosfere dei luoghi in cui viveva, come dimostra la vena surrealista di molte riprese francesi e il gusto molto americano di certe fotografie newyorchesi dove si fa sedurre dalle architetture o coglie fra luci e ombre figure solitarie che sembrano ispirate dai dipinti di Hopper, dagli scritti di Hemingway, dai personaggi di Chandler e pazienza se non siamo a Los Angeles.

“Lo stupore della realtà” presenta anche una serie di opere scattate con la Polaroid SX70 pochissimo note al pubblico, che rivelano la capacità del fotografo di confrontarsi con un colore lieve e delicato mantenendo così inalterata la sua vena poetica. La mostra è accompagnata da un video dove alcuni fotografi italiani contemporanei raccontano di come sono stati influenzati dalle opere di Kertész e da una teca in cui sono esposte alcuni modelli di fotocamere da lui utilizzate, dalla Leica comprata nel 1928 alla Olympus degli ultimi anni.