Facilmente reperibili nei volti della folla presente, stupore e scandalo sono i sentimenti che dominano La resurrezione di Lazzaro (Cappella degli Scrovegni, Padova), obbligandoci a fissare Cristo come il segno di contraddizione che svela i pensieri di molti cuori.
L’opera accade proprio mentre la si guarda: tutto si gioca in un misterioso divenire che non segue lo svolgersi cronologico del tempo, ma ci introduce piuttosto nella dimensione di un eterno presente.
A fare da cornice all’affresco è l’undicesimo capitolo del Vangelo di Giovanni: ogni particolare ne evoca il clima, riproducendone insieme la tensione. Lo sguardo viene così catturato dalla teatralità vigorosa che muove i singoli personaggi e l’intera scena.
Da una parte si stringono i discepoli alle spalle di Gesù benedicente; al centro del dipinto fanno invece massa i Giudei con il cupo vociare che traluce nelle espressioni sinistre: di fronte all’inesorabile evidenza del segno, Giotto li fa come arretrare fino a renderli un grumo indistinto contro l’arida scabrosità della roccia ai piedi della quale sembra sgorgare Cristo.
Da quella medesima roccia prendono forma anche le due figure adoranti in primo piano ai piedi di Gesù: mai la domanda, quando è certa, soggiace all’esito della risposta.
Nella potente energia di questo riconoscimento – sul quale paradossalmente si innesta quello di Cristo: Padre… io sapevo che sempre mi dai ascolto (Gv.11,39) – avviene il miracolo e Lazzaro appare, nella sua trasparente evanescenza di redivivo, secondo quella plasticità tutta giottesca, che obbedisce letteralmente ad ogni particolare suggerito dal testo evangelico: Marta e Maria, presso la tomba, hanno il volto coperto perché il morto è di quattro giorni e già manda cattivo odore (Gv.11,39). Lo stesso vale per le due figure in basso a destra, colte nell’atto di spostare la pietra che richiudeva l’accesso al sepolcro.
La composta solennità della scena scaturisce proprio da questa equilibrata armonia di forme. Ogni gesto si rivela così funzionale ad un misterioso ritmo che nasce dal di dentro stesso dell’opera. L’asimmetria delle masse si addensa intorno all’esile fragilità di Lazzaro risuscitato mentre tutti gli sguardi, puntati su Cristo, sono costretti a riconoscerlo come vittorioso dominatore anche sulla morte.